Index LETTURE&SCRITTURE a cura di Giulio Mozzi - Maggio 1997



Corso di scrittura a puntate (9)

Le precedenti puntate del corso di scrittura narrativa hanno trattati questi argomenti: l’incipit (Nautilus, agosto 1996); la voce narrativa (Nautilus, settembre 1996); la molteplicità del personaggio (Nautilus, ottobre 1996); la redazione dei giochi di ruolo (Nautilus, novembre 1996); come si scrive un racconto cannibale (Nautilus, dicembre 1996); ci sono regole nella scrittura? (Nautilus, gennaio 1997); elementi di metrica (Nautilus, febbraio/marzo 1997); libri da leggere per scrivere (Nautilus, Aprile 1997).

In questa puntata pubblichiamo una versione scorciata del saggio di Giulio Mozzi «Di che cosa parliamo quando parliamo di insegnare a scrivere?», contenuto nel libro Parole private dette in pubblico: conversazioni e racconti sulla scrittura (Theoria, 150 pp., L. 26.000). Il saggio nasce come lezione d’un corso di aggiornamento per insegnanti di lettere delle scuole medie superiori.

Di che cosa parliamo quando parliamo di insegnare a scrivere?

Gentili signore, gentili signori, sicuramente non è la stessa cosa lavorare in classe con ragazzi di 14-19 anni e condurre un corso di scrittura cosiddetta creativa con allievi adulti, volontari e paganti. Tuttavia, poiché questa è la mia esperienza, di questo parlerò; confidando che sia possibile estrarne dei concetti, degli atteggiamenti, delle pratiche ecc. riversabili nell’attività scolastica.

Tengo da un paio d’anni dei corsi di scrittura presso circoli culturali, biblioteche di quartiere eccetera. Sono corsi con 15-18 partecipanti ciascuno. All’incirca un terzo degli iscritti sono studenti universitari (di tutte le facoltà: non c’è una presenza dominante di iscritti a Lettere e filosofia), un terzo sono lavoratori sotto i 35 anni, un terzo sono persone sopra i 45, quasi tutte donne, tra le quali molte insegnanti o ex insegnanti. Raramente si iscrivono ragazzi al di sotto dei 18 anni. Ogni corso consiste in dieci incontri. Di solito, su una media di 16 iscritti, 13 arrivano fino alla fine del corso. Gli abbandoni avvengono generalmente all’altezza del terzo o del quarto incontro; circa metà degli abbandoni sono motivati da cause esterne (questioni di lavoro, di famiglia ecc.). La struttura dei corsi in dieci incontri (di due ore ciascuno) è legata alle esigenze dei circoli o delle biblioteche che li ospitano. Curiosamente, pare che un corso di sette o di undici incontri sia commercialmente o politicamente improponibile. Le scelte didattiche hanno dovuto adattarsi: o così, o pomì. A Trieste sto facendo un’esperienza di corso nei week-end: vedremo come va.

Il prossimo passo, forse, sarà quello di avviare una vera e propria piccola «scuola», comprendente un corso introduttivo e uno o più corsi avanzati, più una serie di corsi-lampo su temi specifici (si potrebbe, pomposamente, chiamarli seminari), un ciclo di conferenze (ad es.: invitare degli scrittori a spiegare in che modo hanno fabbricato un loro racconto o romanzo), e così via.

Per concludere con questo, devo dire che il circolo culturale presso il quale tengo la maggior parte dei miei corsi [Lanterna Magica, via Euganea 27, Padova, 049-8724477] organizza altri corsi connessi alla scrittura e alla narrazione: scrittura teatrale, sceneggiatura cinematografica, fumetto ecc. Naturalmente nessuno di questi corsi (e tanto meno i miei) ha la pretesa di offrire qualcosa di più che una introduzione alla materia. E’ bello però, e sicuramente ricco di possibilità, che in un’unica sede ci sia tanto interesse per la narrazione.

Ci tengo a dire che è del tutto assente dalle nostre proposte quel contenuto illusorio che, a dire il vero, anima molte iniziative di questo tipo. La più vistosa, e perciò più deleteria, è la proposta del corso a dispense settimanali Scrivere, edito dal Gruppo Fabbri. Il buffo è che il corso a dispense, di per sé, non è male (riutilizza, con adeguati adattamenti italianizzanti, i testi di un corso statunitense già pubblicato in sette-otto volumi dalle edizioni Nord; e lo integra con altri contributi ed esercizi ben fatti); tuttavia, come avrà visto chi non sia sfuggito alla martellante campagna pubblicitaria, esso viene proposto con la formula: diventiamo tutti scrittori. Che è, come minimo, scema; e come massimo diseducativa. Come consiglierei l’acquisto di quel corso a qualunque biblioteca scolastica, così lo sconsiglierei a chiunque abbia in mente di diventare uno scrittore.

Dirò di più: a chiunque desideri diventare uno scrittore consiglierei tout court di rinunciare. Ai miei corsi finora si sono iscritte due sole persone che dichiarassero esplicitamente quest’ambizione; hanno detto così: «Voglio diventare uno scrittore professionista». Di uno dei due posso dire che: se ho conosciuta una persona negata per lo scrivere, è lui. A occhio (purtroppo è un dato che non ho conteggiato) direi che spesso le persone che al terzo o quarto incontro abbandonano il corso sono quelle che hanno (non dichiarata o comunque ben nascosta) questa ambizione di diventare scrittori. Mi rendo conto che sto dicendo delle cose un po’ paradossali. In effetti, mi pare che esista una sorta di mitologia dello scrittore come persona, che so, diversa dalla norma, più alta, circonfusa di luce, con i riccioli naturali, ecc.; questa mitologia fa solo male e io la combatto come posso, ad esempio rifiutando ad ogni piè sospinto la qualifica di scrittore. Io sono una persona che, forse, ha una o due cose da dire; e fa il possibile per dirle in maniera comprensibile. Naturalmente questo atteggiamento è assolutamente eretico rispetto a quanto richiesto dall’industria culturale e dell’intrattenimento; io devo stare in una contraddizione e questo, credetemi, non è la cosa più piacevole del mondo.

Il gioco delle motivazioni ha, all’interno dei miei corsi, un’importanza ovviamente grande. Ma credo sia opportuno, prima di proseguire queste considerazioni, dare un’idea di che cosa materialmente avviene in questi corsi. Il che farò subito.

I corsi di base sono, come già detto, corsi di venti ore in dieci incontri, con 15-18 iscritti. Il testo con il quale vengono presentati al pubblico è questo:

«Lo scopo del corso sarà di spingere i partecipanti ad un rapporto più consapevole con la propria attività di scrittura. Perciò il corso consisterà sia in vere e proprie lezioni sia in esercitazioni di scrittura. Questi gli argomenti dei dieci incontri: a che cosa serve raccontare storie; che cosa fa sì che una storia sia una storia; come si organizza il lavoro di scrittura; che cosa «tiene insieme» una storia; le scelte linguistiche; lo scorrere del tempo nel racconto; le emozioni e le cose; iniziare, finire; immaginare un’altra persona che legge; rileggere sé stessi.»

E’ un caso (devo dirlo) che i titoli degli argomenti siano risultati dieci, così come sono dieci gli incontri. Come si vede subito, d’altra parte, non sarebbe questo il contenuto del corso se esso si ispirasse veramente alla teoria della letteratura: per dirne una, manca una «voce» dedicata ai personaggi. Ma questa stranezza sarà spiegata subito.

Il primo incontro è dedicato per metà del tempo alla reciproca conoscenza. A tutti viene chiesto, tra l’altro, di dichiarare le proprie motivazioni. In generale (con poche eccezioni, ad es. i professionisti della comunicazione già citati) le motivazioni si distribuiscono equamente su tre tipologie:

- «mi piace scrivere, l’ho sempre fatto, magari scrivendo lettere, favolette, ricordi ecc.; vorrei cominciare a farlo con maggiore consapevolezza, vorrei impadronirmi di alcune tecniche, vorrei imparare come si fa a farlo bene»;

- «ho una cosa da raccontare ma non so da che parte prenderla, ho anche fatti dei tentativi ma mi arresto dopo poco, mi serve un aiuto, un indirizzo»;

- «non saprei, ero curioso/a; non c’era più posto al corso di batik, così mi sono iscritto/a a questo».

Direi che la motivazione migliore è: «ho una cosa da raccontare». E’ la motivazione migliore (per me che devo fare il docente) perché è la più precisa, concreta e limitata. La motivazione «mi piace scrivere» è più o meno buona (dico sempre per me) a seconda che sia più o meno presente l’interesse per le «tecniche». Paradossalmente, a chi «ha una cosa da raccontare» le tecniche interessano né punto né poco; a chi «gli piace scrivere» le tecniche sono invece la leva che io posso adoperare. Probabilmente si può dire così: chi non è spinto da un interesse preciso (cioè da «una cosa da raccontare») può essere soddisfatto dall’apprendimento astratto di una serie di tecniche (o di «procedure», come io preferirei chiamarle); chi invece ha un interesse preciso è interessato unicamente a soddisfare quella precisa esigenza, e bada poco al resto.

Le motivazioni del tipo «non saprei» possono nascondere di tutto; di solito tra i «non saprei» si annidano gli «aspiranti scrittori professionisti». Tuttavia va detto che spesso a dire «non saprei» sono persone di una certa età, a volte precocemente in pensione, che evidentemente si iscrivono a corsi e corsetti soprattutto per incontrare altre persone e passare insieme dei gradevoli momenti. E questa è un’esigenza della quale, piaccia o non piaccia, bisogna tenere conto.

All’esplorazione delle motivazioni fa seguito la domanda chiave: «Abbiamo dei testi da leggere?» Il corso, tutto sommato, parte esclusivamente da qui. A volte, valutando la composizione del gruppo, decido di agire un po’ diversamente; ma comunque si parte da qui: «Abbiamo dei testi da leggere?»

Le situazioni sono due: o li abbiamo, o non li abbiamo. Il corso di scrittura si fonda sulla lettura dei testi scritti dai partecipanti, sulla loro analisi, sulla loro revisione. Non c’è, metodologicamente, nient’altro. Nel caso in cui non ci siano testi, ossia nel caso in cui i partecipanti non siano molto disponibili a portare nel gruppo i testi che hanno scritti in gran segreto a casa, allora sono guai. Ovviamente si può partire con gli esercizi: si fanno produrre dei testi lì, sul momento; si propongono esercitazioni da eseguire a casa; in somma, il docente in qualche modo costringe il gruppo a produrre dei testi. Magari ci si diverte, ma non è la stessa cosa.

Vorrei soffermarmi su questo punto, perché è il più importante di tutti. Per chi si iscrive a uno dei miei corsi, di solito il corso è la prima volta in assoluto che l’interesse per la scrittura affiora in superficie. Certamente molti hanno scritte varie cose, le hanno date da leggere a conoscenti ed amici; ma il gruppo del corso è un ambiente estraneo e nuovo, composto da persone sostanzialmente ignote e gestito da un personaggio (il docente, cioè io) al quale in fase iniziale viene attribuita un’autorevolezza pressoché illimitata (dopo un po’, grazie al cielo, essa viene ragionevolmente limitata). In somma, portare nel gruppo un proprio testo è un’esperienza mica da ridere, è una cosa del tutto nuova, è una violenza al proprio naturale pudore. Per di più, un testo portato nel gruppo viene fotocopiato per tutti, letto ad alta voce, analizzato alla lavagna, discusso.

La cosa più importante è la lettura ad alta voce. Infatti: nessuno si sottrae alla fotocopiatura, nessuno si sottrae all’analisi alla lavagna, nessuno si sottrae alla discussione: ma in ogni gruppo c’è una persona almeno che si rifiuta di leggere ad alta voce. Mi è capitato perfino di trovare un gruppo assolutamente incredibile dove quasi tutti si rifiutavano di portare i loro testi nel gruppo, e quei pochi che li portavano erano estremamente riluttanti alla lettura. Mi sono chiesto, immaginerete quante volte, che senso avesse quel gruppo, quale fosse l’esigenza precisa di queste persone che impegnavano 180.000 lire sonanti, più dieci serate, per andare sostanzialmente a far finta di fare un corso di scrittura. Era comunque un gruppo strano, ad esempio per la densità di psicologi (cinque studenti di Psicologia, più una psicologa professionista e uno psichiatra), o per il fatto che c’erano quattro persone (su quindici, sono tante) imparentate tra loro più altre tre persone che erano colleghi di lavoro; in somma, una composizione strana.

Ma proprio durante quel corso, che è stato una delle esperienze più dure della mia vita, mi sono convinto definitivamente che l’operazione più grossa che si fa allestendo un corso di questo genere è quella di fornire un pubblico ai partecipanti. Per il corsista il vero fatto emotivo importante, a volte sconvolgente, è quello di aver difronte delle persone che ti ascoltano, che si interessano ecc.; delle persone che, accettando o non accettando, discutendo o non discutendo, approvando o non approvando il tuo tentativo di comunicazione, ti aiutano a definire il tuo ruolo sociale, se così si può chiamarlo, in quanto persona che scrive.

Il punto è questo: scrivere è un atto di comunicazione interpersonale; tuttavia per molti scrivere è un’esperienza al limite della solitudine (o del tutto dentro la solitudine). Il corso spezza, o almeno cerca di spezzare, questa solitudine: fa dello scrivere un’attività che interessa anche ad altri, sposta l’attenzione da sé al destinatario, e così via. Appunto, è un cambiamento del tuo ruolo sociale in quanto persona scrivente. Ti trovi a discutere con delle persone senza che si ponga il problema della dignità. Molto spesso lo scrivere è percepito da chi lo fa come un’attività indegna, una cosa della quale ci si può vergognare, un vizio, un segno di sconveniente asocialità, ecc. Nel gruppo si scopre, invece, che grazie allo scrivere si comunica, si socializza, si dà e riceve stima, si può diventare importanti per qualcuno, si aumenta in dignità. La lettura ad alta voce è, per così dire, la massima materializzazione di questa spezzatura della solitudine. Per alcuni è una tortura, per altri una gioia. Ognuno vive queste cose come può. Il mio compito, come docente, è provocare la situazione, assistere, gestirla in modo che non risulti dannosa per nessuno. C’è chi è tutto contento anche da subito, c’è chi deve affrontare delle difficoltà interiori, eccetera, fino a chi semplicemente riesce ad attraversare indenne tutto il corso, trovandosi alla fine la sua solitudine del tutto intatta. C’è chi, nel momento in cui si comincia a leggere ad alta voce, esce a fumare una sigaretta; e torna dentro appena si finisce.

Mi rendo conto che in quello che ho detto finora c’è ben poco contenuto tecnico. In effetti, nelle fasi iniziali del corso io mi limito a tenere un certo atteggiamento. La posizione esatta è quella dell’ascolto. Io sto in mezzo al gruppo come un ascoltatore. Non mi pongo il problema di insegnare una determinata cosa a ciascun componente del gruppo. Semplicemente, mi metto in mezzo al gruppo e ascolto. So che il mio ascolto fa da modello per l’ascolto che poi ciascun componente del gruppo riserverà agli altri. Questo è il punto. Tutti vengono chiamati a parlare, e lo fanno con più o meno fatica. Io fornisco il modello dell’ascolto.

Non saprei dire in che cosa consiste l’«ascolto modello» che io fornisco; credo che si tratti di una struttura fondamentale del mio carattere e dubito di poterla trasmettere. Io ho un’attenzione molto selettiva. So che ci sono cose che mi servono e cose che non mi servono. So (e lo so nella pratica, non nella teoria) che questi corsi di scrittura servono anche a me. E’ da questi corsi che mi viene quella che oggi posso chiamare presuntuosamente una certa consapevolezza. Io quindi mi appresto ad ascoltare come si appresta una persona che pensa che ciò che si appresta ad ascoltare gli servirà. Un atteggiamento molto utilitaristico, tutt’altra cosa che un, scusate il bisticcio, «disinteressato interesse». Ciò che io so in più, rispetto ai miei corsisti, è che questi corsi mi servono davvero, che mi fanno bene, che imparo una quantità di cose.

E’ importante che io faccia vedere il mio ascolto. Insegnare è fare teatro. Entra in gioco il corpo. Ad esempio: io quando parlo non sono capace di stare fermo, gesticolo, mi muovo nella stanza, mi rotolo per terra sporcandomi tutto, mi arrampico sopra i tavoli ecc. Invece, mentre ascolto una lettura sono un modello di immobilità. In più, spesso do le spalle al gruppo, perché prendo appunti sulla lavagna. Anche questo prendere appunti è importante: se non prendo nessun appunto, tutti pensano che quel testo non sia interessante (il che non è, evidentemente; ma il teatro funziona così).

Poi: io sono il docente, quindi sono anche il giudice supremo della situazione (almeno per i primi incontri). Ora, io non valuto i testi che vengono offerti nel gruppo se non in base a un criterio interno: cerco di estrarre dal testo (o dalla persona che l’ha prodotto) le intenzioni del testo; e valuto il risultato rispetto a quelle. Questo naturalmente senza annullare me stesso: deve essere evidentissimo che io sto appunto valutando il risultato del testo rispetto alle sue proprie intenzioni; metto in scena, quindi, una specie di piccola dissociazione. La dissociazione si ricompone, invece, durante le fasi di discussione. Lì io non mi faccio nessuno scrupolo: mi esibisco con tutte le mie idee peregrine, le mie idiosincrasie, le mie scelte di parte. Non uso alcuna prudenza.

A volte succede che io attacchi un testo. E’ un atto estremamente importante, anche perché è raro. Succede quando viene proposto un testo che tematizza il rifiuto della comunicazione. Ad esempio, mi ricordo un testo che consisteva in una lunga allegoria continuata: la scrittura veniva assimilata alla defecazione, e mi permetto di non entrare nei particolari. Allora io so che ho difronte una persona che considera me un avversario: quindi la attacco. Reagisco come se fossi stato personalmente offeso; il che mi è facile, visto che effettivamente mi offendo. Anche l’attacco ha un suo senso didattico: si tratta di portare l’altra persona a convenire che, effettivamente, la comunicazione è possibile («se hai capito che è mia precisa intenzione picchiarti, e poiché è effettivamente mia precisa intenzione picchiarti, ciò significa che ci capiamo»). Un certo rifiuto della comunicazione è dovuto, di solito, a un’incapacità di prendere i paradossi per quel che sono, ossia ragionamenti al limite. Se io dico: «ogni uomo è solo», dico una frase che ha una sua certa verità; se la assolutizzo, mi passa la voglia di star qui a raccontarvi queste cose; vado a casa, mi faccio una canna e una birra, e amen. Ma poiché invece sono qui (e, dico al mio corsista: «poiché tu sei qui»), ciò basta a falsificare quella istanza di non-comunicazione.

Mi sono soffermato su questo perché, a occhio, mi pare che programmatico il rifiuto della comunicazione sia un abbastanza tipico fatto adolescenziale; e penso che in aula lo incontrerete con una certa frequenza. La mia opinione, per quel che vale, è questa: i ragazzi che manifestano questo rifiuto vanno attaccati (non aggrediti, sia chiaro). Io sono l’insegnante, la so più lunga di te, ne ho viste tante, ti faccio vedere io se si può o non si può comunicare; bèccati questa comunicazione, tie’.

Ma torniamo a bomba. A che cosa serve la messa in scena dell’ascolto-modello? Soprattutto a distinguere due momenti che, di solito, i miei allievi faticano a distinguere: quello della osservazione distaccata del testo e quello dell’appassionata presa di posizione. In genere, i miei allievi arrivano al corso abbastanza convinti che per arrogarsi il diritto di scrivere (pensano proprio così: che ci si debba conquistare il diritto di scrivere) occorra acquisire la capacità di scrivere rispettando determinati standard. In questo si vede molto l’azione educativa della scuola: la scuola, giustamente, punta a mettere tutti in grado di esprimersi ad un certo livello standard, magari non altissimo ma sicuro. Fatto sta che un «certo livello standard» permette di realizzare una «comunicazione standard», che va bene nella maggior parte delle occasioni della vita ma che diventa, all’interno di un corso di scrittura, l’autentica bestia nera. In nome del «livello standard», la domanda che mi viene fatta più spesso è quindi: «Come si fa?»

A questa domanda io faccio il possibile per non rispondere, e ne contrappongo altre due: «Che cosa hai fatto?» e «Che cosa vuoi fare veramente?» La prima domanda è legata all’osservazione distaccata del testo; la seconda all’appassionata presa di posizione. Io ho parlato di «valutazione del risultato del testo rispetto alle sue intenzioni»; il che può sembrare una cosa ragionevole; in realtà, ciò che i miei allievi scoprono è per l’appunto di avere delle intenzioni: magari non consapevoli, ma ben presenti, addirittura evidenti, nel testo. Il mio primo lavoro è quindi: mostrare le intenzioni del testo. Si tratta semplicemente di osservare le «scelte» presenti nel testo (scelte di genere, di livello linguistico, di forma sintattica, di statuto della narrazione ecc.) e di presentarle all’autore come se fossero delle intenzioni (decidiamo che chiameremo «intenzione» un complesso di «scelte» che appaia dotato di un qualche senso). La reazione normale è questa: «Non mi rendevo conto che le mie intenzioni fossero quelle». Dopo di che, la persona decide se approvarle o rifiutarle in tutto o in parte.

Un fatto interessante, a questo proposito, è che quasi mai i miei corsisti ritengono di avere delle intenzioni a livello formale; mentre tutti hanno delle serissime intenzioni a livello del contenuto. Nessuno dice: volevo fare un testo con una frase di un certo tipo; molti dicono: volevo raccontare la tal cosa, produrre quella determinata sensazione. Al massimo vengono espresse delle intenzioni a proposito della trama: volevo fare una storia complicata, semplice, con tanti personaggi, con dentro mia nonna, con un effetto a sorpresa, ecc. Quindi, estrapolare dai testi delle intenzioni di tipo formale è una cosa che spiazza molto l’autore del testo. Questo spiazzamento è molto produttivo: è importante, infatti, che chi scrive cominci a rendersi conto che ciò che scrive è non solo narrazione, ma anche (e spesso prevalentemente) scrittura. Compito mio, dopo che si è prodotto questo spiazzamento, è condurre le persone a ribaltare il loro punto di vista: cioè a pensare che ciò che scrivono sia soprattutto scrittura.

Fermiamoci a riflettere sulla parola scrittura. Non è banale, scegliere scrittura piuttosto che narrazione. C’è un grosso rischio, vi sarete resi conto, nel mio modo di lavorare. E cioè il rischio di trasformare il corso in una sorta di psicodramma incontrollato. E’ esattamente ciò che con tutte le mie forze io cerco di impedire. Continuamente, ossessivamente io richiamo l’attenzione sui testi, sullo scrivere. Cosa che può richiedere, a volte, molto polso. Nel già citato gruppo tutto pieno di psicologi, ad esempio, era molto difficile. La deriva verso l’interpretazione era molto forte, per di più le capacità interpretative di alcuni dei partecipanti erano, bisogna dirlo, proprio notevoli. Poi si era creata una situazione pazzesca: alcune persone portavano i loro testi nel gruppo ma non per il gruppo, bensì perché fossero interpretati (con tutti i conseguenti problemi miei, anche di leadership ecc.) dalle persone con competenza psicologica, interpellate alla stregua di chiromanti.

Poi c’è la situazione tipica: la persona che ti porta dei testi nei quali racconta il suo dramma esistenziale (uso dramma in senso freddo, non patetico). In realtà tutti portano il loro dramma, ma c’è chi si scherma di più e chi si scherma di meno. Come tutti sanno schermarsi in una certa misura è utile e opportuno. Ora, io ho spesso nel gruppo delle persone il cui obiettivo evidentemente è: scrivere in maniera comunicante riducendo al minimo la schermatura. Si tratta di un intento difficile e nobile. A questo punto succedono delle cose stranissime. Ad esempio, io commento e analizzo il testo proposto dal punto di vista strettissimo della scrittura, tuttavia guardo negli occhi la persona che l’ha scritto e cerco con gli occhi di dire: «Ho perfettamente capito che cosa stai cercando di fare, e pertanto sono solidale con te; tuttavia qui, in questa situazione di gruppo, farò il possibile per non violare la tua intimità.» Bisogna essere sempre estremamente espliciti, anche con gli occhi. Se Giuseppe propone un testo in prima persona, il cui personaggio è evidentissimamente Giuseppe stesso, io non parlerò mai del testo dicendo «Giuseppe», ma sempre dicendo: «il personaggio che qui dice io». E troverò il modo per dire al gruppo: «naturalmente qui tutti pensiamo che il personaggio che qui dice io sia Giuseppe; ma non è così, e Giuseppe è il primo a saperlo; questo personaggio che qui dice io è, casomai, una rappresentazione di Giuseppe tra le tante possibili: parziale, occasionale; è una maschera, soprattutto è un personaggio che si muove nella pagina e non nella stanza, nell’immaginario e non nella realtà, nel discorso e non negli atti.» Sapeste che fatica far passare questo.

Ma che cosa succede, materialmente, quando si legge un testo nel gruppo? Succede questo. Di solito non viene letto un testo solo, ma più testi: tre o quattro, di fila, senza interventi in mezzo. Se la fotocopiatrice non è rotta si distribuisce copia. Io sto alla lavagna, come dicevo prima do per lo più le spalle al gruppo, prendo appunti sulla lavagna. Abbastanza spesso l’appunto alla lavagna prende la forma di uno schema. Finite le letture io comincio a descrivere i testi che abbiamo appena sentiti leggere. Quando si è passata la metà corso, di solito non comincio io a descrivere ma chiedo al gruppo: «Che cosa ve ne pare di questi testi?»; e prendo la parola dopo un primo giro d’interventi.

Nella descrizione dei testi tengo presente quella scaletta d’argomenti che funge da programma del corso. Quelli sono gli argomenti che io voglio svolgere: volta per volta, a seconda dei testi che i partecipanti offrono al gruppo, io affronto questo o quell’argomento; ossia descrivo e commento i testi dal punto di vista di quell’argomento. Si vede quindi che buona parte del corso è affidata all’improvvisazione. Ogni volta testi diversi, descritti e commentati all’impronta, senza un ordine preordinato, se così posso dire, degli argomenti.

Una volta ho provato a fare un corso con un ordine preciso degli argomenti. Iniziavo con un discorsetto teorico di trenta minuti, poi per trenta minuti si leggeva, poi per un’ora si chiacchierava. Mai che mi siano capitati dei testi adatti all’argomento del giorno: mai. Il destino faceva apposta. Ossia: o si lavora a programma, o si lavora con i testi spontaneamente offerti. Un’altra volta ho provato a costruire degli esercizi di scrittura adatti ai singoli argomenti: uno per lo scorrere del tempo, uno per i livelli linguistici, uno per la presentazione degli oggetti eccetera. I miei bravissimi allievi riuscivano ad eseguire l’esercizio facendo tutt’altro da ciò che mi aspettavo. Chiedevo di descrivere una bottiglia e mi raccontavano la storia della nonna zoppa. Ossia: l’esercizio obbligato può servire solo per l’apprendimento di elementi tecnici molto molto semplici.

Così mi sono rassegnato: l’improvvisazione è, per ora, per questi corsi di base (e per me), l’unico metodo praticabile. Ha i suoi vantaggi: ad esempio, una certa spettacolarità. Evidentemente fa impressione leggere ad alta voce un testo (al quale si è dedicato magari tempo, lavoro; sul quale si è sofferto a lungo e in silenzio) e sentirselo voltare e rivoltare come un guanto da una persona che fino a cinque minuti fa non ne sapeva niente. Fa impressione raccontare il proprio dramma esistenziale e sentirselo analizzare come se fosse un’invenzione narrativa. In realtà questi effetti sono salutari: contribuiscono (spero) a creare il giusto tipo di distacco. Ovvio che l’improvvisatore non può sbagliare. Io non posso sbagliare, veramente si è come a teatro o in concerto. Se sbaglio devo fare marcia indietro velocissimamente e rifarmi la faccia entro cinque minuti con qualcosa di molto molto molto virtuosistico.

Devo dire: è la mia persona in gioco. Credo che questi corsi funzionino (credo che mediamente funzionino) anche perché c’è questa messa in gioco della mia persona. Io sono l’insegnante, tuttavia non propongo un sapere certificato e formalizzato; tutto ciò che dico viene dal mio vissuto. Anche quello che ho imparato sui libri (sui libri teorici, intendo) lo espongo avendolo trovato utile per il mio vissuto. Verso la fine del corso io, per i miei allievi, non sono più uno che sa come si scrive; sono, piuttosto, una persona per la quale lo scrivere è decisamente importante; sono una persona che sulla scrittura ha scommesso un pezzo bello grosso della propria vita. Non parlo di lavoro e soldi, ovviamente: parlo di identità, di coscienza di sé, di comunicazione con gli altri.

E’ anche per queste ragioni che l’«esercizio» si incastra abbastanza male nei miei corsi. Tuttavia, a volte, con certi gruppi particolarmente riluttanti a produrre spontaneamente dei testi, ho fatto eseguire esercizi; e col tempo ne ho selezionati alcuni che ritengo produttivi. Ad esempio, la prosecuzione di un racconto del quale si dà l’inizio. Questo si intitola semplicemente «pt»:

L’uomo ringraziò.

- Si figuri, disse Rita. Non è niente.

- Non è così facile trovare una persona gentile, disse l’uomo.

- Sa, disse Rita, tante volte è la fatica.

- Mi rendo conto, disse l’uomo.

- Lei si immagina con quanti utenti abbiamo che fare ogni giorno, disse Rita.

- Mi immagino, disse l’uomo.

- Non sembra, disse Rita, ma è un lavoro faticoso.

L’uomo si voltò. Non c’era nessuno dietro di lui. L’ufficio era quasi deserto. Una signora anziana aveva ritirato la pensione, due sportelli più in là, e stava ricontando lentamente i soldi. Borbottava tra sé.

- Sa, disse Rita abbassando la voce.

L’uomo avvicinò il viso al divisorio trasparente.

- A volte, disse piano Rita annuendo verso la signora anziana, ci tocca fare anche le assistenti sociali.

- Mi immagino, disse l’uomo ridendo.

La signora anziana aveva finito di ricontare i suoi soldi. Cominciò a camminare verso la porta strascicando i piedi e borbottando. Entrò una ragazza con un fascio di raccomandate.

- La lascio al suo lavoro, disse l’uomo.

- A rivederla, disse Rita.

Nell’uscire l’uomo aspettò la signora anziana e le tenne aperta la porta. La signora non lo ringraziò nemmeno. Uscì sempre borbottando, il fascetto di banconote stretto in mano.

La ragazza posò il fascio di raccomandate sul ripiano dello sportello di Rita e cominciò a passargliele. Rita prese la prima raccomandata, infilò il modulo grigio nell’affrancatrice, schiacciò tremila e cinquanta lire.

Fuori si sentì gridare.

La prosecuzione di questo testo (faccio solo questo esempio per brevità) può servire per parlare di tante cose. Ad esempio:

- serve per parlare di organizzazione dello spazio. Come è fatto l’ufficio postale? Rita può vedere quello che accade fuori? Allora si lavora con disegni, schemi, proiezioni. Bisogna costruire anche l’esterno dell’ufficio. Si scopre che a seconda di come è fatto lo spazio la storia può essere diversa.

- serve per parlare di arredamento. Che cosa c’è dentro un ufficio postale? Si fanno elenchi di oggetti, si parla dei possibili usi e ruoli nella narrazione di questi oggetti. Ad es.: se Rita corresse fuori a vedere che succede, quanto tempo ci metterebbe a uscire attraverso la bussola blindata? (dipende anche dal modello di bussola: ce ne sono almeno un paio).

- serve per parlare di tempo e di spazio. L’incipit fornito presenta una scena lenta, la frase conclusiva dà un’accelerazione improvvisa. Si può costruire una scena movimentata della durata, ad esempio, di tre minuti; nella quale diversi personaggi si muovono, facendo ciascuno una cosa diversa. Si fanno dei bei diagrammi dei tempi ecc.

- serve per parlare dei personaggi. Chi è «l’uomo»? E Rita, è un’impiegata pettegola o sollecita? E la signora anziana è amabile o odiosa? Si scopre che i personaggi hanno delle ambiguità, e che di queste ambiguità si alimenta la storia.

- serve per imparare a inventare con il materiale che si ha. Molti si precipitano verso la più semplice delle soluzioni: «l’uomo» ha derubato la vecchia. In realtà è difficile crederci. Altri rinunciano a usare i personaggi che hanno già e si mettono a inventarne altri (una volta, addirittura, saltò fuori una continuazione dalla quale mancavano sia Rita, sia «l’uomo», sia la vecchia). A volte si scopre, con grande stupore di tutti benché sia evidentissimo, che Rita non può essere l’unica impiegata dell’ufficio (chi ha pagato la pensione alla vecchia?). Poche cose stimolano l’inventiva come l’essere costretti (è il docente che costringe) a lavorare con materiali limitatissimi.

- serve per confrontarsi con il problema stilistico. Di circa settanta persone che hanno fatto questo esercizio, solo una è riuscita a scrivere la continuazione mantenendo il registro stilistico. Circa metà hanno scritto la continuazione in uno stile completamente diverso senza rendersene conto, cioè senza accorgersi che mettevano una frattura nella storia:

- serve a riflettere sul punto di vista. Qual è il punto di vista nell’incipit? E’ indeterminato? E’ quello di Rita? E’ semplicemente un punto di vista «interno all’ufficio»? Potrebbe essere quello dell’«uomo»?

Un altro esercizio usato con profitto diverse volte è il seguente:

Tèlecom. A. e B. stanno insieme da un certo tempo. A. decide di interrompere la relazione. Telefona a B. da una cabina del telefono. Per A. non è semplicissimo comunicare a B. la propria decisione. La scheda Tèlecom si esaurisce e la linea cade prima che A. abbia potuto dire: «Ti lascio». A. esce dalla cabina. (Scrivere un racconto che contenga gli elementi proposti. Nel racconto includere: la descrizione dell’abbigliamento di A. o di B. o, meglio, di entrambi; la specificazione esatta della posizione della cabina; la descrizione di ciò che si vede dall’interno della cabina; la specificazione dell’ora del giorno in cui la conversazione avviene; almeno due battute di dialogo.)

Questo esercizio è utile soprattutto per affrontare quella che è la bestia nera di tutti (o quasi) i miei corsisti: la descrizione. E’ molto frequente che i miei corsisti siano quasi del tutto incapaci di descrivere; in alternativa possono essere capaci di descrivere in astratto, ma non si rendono conto delle connessioni funzionali tra descrizione e narrazione. In somma, è gente che quando legge i libri «salta le descrizioni».

Ora, o è vero o non è vero che l’immaginazione di storie è prevalentemente un fatto visivo; e io credo che sia vero. Io mentre scrivo ho, diciamo così, il film che mi scorre davanti agli occhi; e scrivo come uno spettatore di prima fila (cioè muovendo la testa per guardare una parte o l’altra dello schermo). In molti romanzi d’oggi (e anche d’ieri, diciamo dal 1950 in poi) è possibile interpretare la narrazione come una sceneggiatura; letteralmente si vedono i movimenti di macchina, gli stacchi, le inquadrature ecc. In tempi recenti, poi, si vede sempre più l’influenza di certo fumetto; pensiamo, se ne volete una, alla relazione tra la proliferazione di vignette («inquadrature») in Guido Crepax e il romanzo dell’école du regard; o agli esperimenti di fumetto «teatrale» del compianto De Luca (le riduzioni da Shakespeare, ma anche le storie del commissario Spada); alla somiglianza tra certo fumetto giapponese di vita quotidiana (Rough, Videogirl Ai, Maison Hikoku...) e le narrazioni di Raymond Carver; e così via.

Costringere un gruppo di corsisti a descrivere obbligatoriamente alcuni elementi della storia produce subito una ventata d’ansia; successivamente si lavorerà sulla connessione tra le descrizioni e la storia. Ad esempio, il semplice fatto di dover indicare un’ora precisa per la telefonata è per molti un vero guaio. Se la telefonata avviene alle cinque del pomeriggio, ci sarà una ragione per cui avviene alle cinque del pomeriggio (queste sono le mie sollecitazioni: di solito nessuno ci pensa); e allora si lavora, si lavora, e si scopre di dover costruire l’intera giornata del personaggio per scegliere l’ora giusta, e bisogna anche assegnargli un mestiere, degli eventuali obblighi sociali ecc. L’abbigliamento, invece, è un indicatore di ceto (a questo ci arrivano tutti subito) ma anche di umore, di condizione psicologica (questo tutti lo fanno, ma non lo sanno): è interessante, ad es. vedere come la contraddittorietà degli stati d’animo del personaggio (lo lascio/non lo lascio) può essere raccontata senza alcun accenno all’interiorità ma semplicemente facendo contrastare comportamento e abbigliamento.

E’ ovvio che simili risultati si possono ottenere con esercizi diversi. Io nella mia pratica ho trovati questi, e ve ne ho parlato solo a titolo di esempio.

Il discorso fin qui mi sembra sufficientemente divagante. In verità io sono un patito della divagazione: mi sembra un modo interessante di affrontare un argomento. Vorrei parlare, ora, di cose che non faccio nei miei corsi di scrittura; e di alcune cose che faccio ma dalle quali, finora, non ho raccolto molto frutto.

Intanto: nei miei corsi non si parla di ornamento del discorso. Tutta la trattazione delle cosiddette figure retoriche resta fuori. So che ci sono molti corsi che si qualificano di scrittura creativa dove non si fa quasi che questo. Tra l’altro ne ho frequentati un paio, a suo tempo. Sono corsi strani dove lo studio delle figure retoriche classiche (di significato, di parola, di posizione...) si unisce, curiosamente, allo studio di metodi «creativi» di tipo oulipiano: giochi di parole, acrostici, esercizi di stile alla Queneau, autocostrizioni e così via.

Credo sinceramente che tutto questo non serva pressoché a niente, se si lavora a livello di divulgazione popolare (come faccio io) o nella scuola (come fate voi). E’ del tutto inutile far apprendere qualcosa che non abbia una precisa utilità. Quindi, al di là di alcuni elementi irrinunciabili (correttezza, chiarezza, economia) non credo che sia sensato andare. Non serve che io insegni a costruire metafore, quando ho difronte persone che, il più delle volte, non hanno alcuna consapevolezza delle metafore che normalmente usano.

Molti dei testi che vengono prodotti nei gruppi sono letteralmente grondanti di ornamenti del discorso. Direi che si assiste a volte alla proliferazione incontrollata degli ornamenti.

Michele uno. La mania di Michele era diventata per lui ultimamente una vera ossessione, una malattia: ritrovare vecchie fotografie in bianco e nero, incorniciarle a giorno ed appenderle su una delle pareti della sua stanza; volti, sguardi, espressioni, smorfie, si confondevano tra le verticalità della sua camera, venendo così a creare una grottesca galleria di immagini perdute.

Michele trascorreva interi pomeriggi sul tardi, la maggior parte del suo tempo, devoto a questa instancabile ricerca, attivo in questo strenuo lavorio intellettuale e fisico; scendere, salire, spostare, rimuovere, cercare, frugare, appaiare, scoppiare, rovistando con le sue mani ossute nelle vecchie scatole, nei cassetti, respirando polvere, negli antri più nascosti dei mobili di casa, sudando, nei segreti mai misteri, cose non sue.

Vite di altri, parenti dimenticati, donne ripudiate, amici seppelliti dalla terra e dalla memoria, situazioni irripetibili, sguardi irraggiungibili, erano gli unici compagni di ogni suo giorno.

Era, questo continuo affannarsi, per Michele una necessità, una droga come troppo facilmente si potrebbe dire, un gorgo da cui non saper uscire, il solo luogo abitabile per lui, un corridoio della memoria.

Michele due. Michele abitava in una casa troppo grande per lui. La avevano abitata, in altri anni, sconosciuti parenti. Michele la aveva ereditata con tutto dentro, strapiena di mobili e cose. Volentieri aveva lasciato l’appartamento d’affitto per occuparla. All’inizio ne aveva usate solo poche stanze, cucina bagno camera da letto: come intimorito. Poi aveva cominciato ad esplorare. Tornava dall’ufficio alle cinque e mezza, sceglieva un mobile, lo apriva, lo svuotava, apriva tutte le scatole e scatolette, scuoteva i vestiti appesi, frugava le tasche. Trovò in un cassetto un album di fotografie in bianco e nero. Lo sfogliò e risfogliò. Poi staccò le fotografie e le appese tutte, con il nastro biadesivo, alla parete più libera del salotto. Così poteva vederle tutte insieme. Dalla parete nessuna faccia conosciuta lo guardava.

Il primo testo, «Michele uno», è quello dal quale siamo partiti. Il secondo testo, «Michele due», è quello realizzato a fine corso. Che cosa c’è in meno? Le figure retoriche (tranne quella dell’ultima frase: che però appartiene a una tipologia non presente nella prima redazione). Che cosa c’è in più? Avvenimenti, azioni precise. E’ chiaro che il testo comunque non è un capolavoro, ma mi pare che ci sia un bel progresso. La cosa interessante è che poi la storia, nella versione finale, prende un percorso abbondantemente diverso da quello originario. Semplicemente, l’eccesso retorico della prima redazione non permetteva alla vera storia di iniziare e svolgersi.

Una cosa che invece mi piacerebbe fare, ma finora non è riuscita decentemente, è lo studio della frase. Il massimo risultato che ottengo è quello che avete appena visto: semplificazione. Ma riuscire a insegnare a qualcuno a «sentire» la frase (più o meno, diciamo, come «si sente» il verso) è un’impresa disperata. Leggere ad alta voce serve a qualcosa; ma siamo lontani da quel che serve. La mia ambizione è far capire, ad esempio, come un avverbio all’inizio della frase possa dare un tono particolare: «Volentieri aveva lasciato l’appartamento d’affitto per occuparla». Far capire come la preposizione dell’aggettivo a volte sia decisiva per la brevità (ad es. per eliminare l’articolo): «La avevano abitata, in altri anni, sconosciuti parenti». Far sentire le possibilità della frase bipartita o tripartita; il valore degli incisi; la sottigliezza della consecutio temporum. Questa, ovviamente, è retorica: la retorica delle figure di posizione, dell’organizzazione della frase.

Ecco, direi che se su un insegnamento retorico si può insistere, e si deve, è proprio questo: le figure di posizione, l’organizzazione fisica della frase. Sul lessico invece si deve tenere il freno. Il lessico rappresenta spesso, per lo scrivente inesperto, il momento della falsità. L’uso di parole reboanti, strane, sublimi o basse, poetiche o gergali, ecc.; qui la scrittura sistematicamente perde di autenticità. Invece la sintassi, o se preferite il ritmo della frase, è il momento della verità. Noi riconosciamo che un testo è un buon testo soprattutto dal tono della voce. E il tono della voce è molto più un fatto di sintassi e ritmo che di lessico. Per il lessico punteremo prima alla naturalezza (precetto: cerca di non usare parole che non useresti in una conversazione con un amico) e poi all’esattezza; useremo i dizionari, soprattutto quello visuale della Zanichelli e quello etimologico di Cortelazzo e Zolli (sempre Zanichelli): quest’ultimo per conoscere non l’etimo ma la storia della parola (del campo semantico ricoperto dalla parola). Per la sintassi invece punteremo alla mobilità. Il primo esercizio naturalmente è la narrazione orale. Io faccio parlare tantissimo i miei corsisti, voi potete far parlare i ragazzi in aula.

Una buona consapevolezza della sintassi porta da un lato a un maggiore controllo dell’espressione orale, dall’altro all’immissione di oralità nella scrittura. Io non sono un tifoso della scrittura cosiddetta parlata, tutt’altro. Vorrei far notare come nei Promessi sposi i pezzi sfacciatamente di «bella scrittura» (l’addio ai monti, la madre di Cecilia ecc.) siano anche quelli che danno il meglio di sé nella lettura ad alta voce. I nostri ragazzi devono imparare a scrivere come parlano e a parlare come scrivono: si tratta di attivare un circolo virtuoso, nel quale ovviamente ha una grande importanza una cosa della quale non abbiamo ancora parlato: la lettura.

Non sarò io a spiegarvi che la lettura è importantissima e che una bella stagione adolescenziale di letture è ciò che forma la persona capace di scrivere; già lo sapete. Tuttavia vi propongo una riflessione. La scuola, giustamente, propone ai ragazzi un certo «canone» di scrittori la cui importanza è ormai consolidata. Da vent’anni in qua non ci sono state grandi variazioni del canone: forse ne è uscito Cassola, forse vi è entrato Gadda. Questo canone mi sembra a conti fatti imprescindibile. Oltretutto comprende molte opere di grande contenuto etico: e questo mi pare bene e opportuno (a una persona che volesse leggere un libro solo, un libro solo in vita, io consiglierei Se questo è un uomo). E’ d’uso in molte classi integrare il canone con un campionario di letture un po’ meno, diciamo così, certificate. Ecco: io credo che si potrebbe lavorare molto con questa, e scusate l’espressione, integrazione al canone.

Qualche settimana fa c’è stata, in questo corso, una sorta di querelle des anciens et des modernes: classici sì, classici no, e così via. Io credo che il problema fosse mal posto. Non credo che sia il caso di proporre ai ragazzi i libri di moda: ci pensa già la moda a proporli. Credo che sia il caso di proporre ai ragazzi i libri adatti a loro. Allora mi permetto di dire: se in una classe si fa un lavoro sulla scrittura, l’insegnante potrà costruire l’integrazione al canone sulla base delle scritture dei ragazzi. Si possono proporre testi dove, ad es., è realizzato bene ciò che il ragazzo cerca di realizzare. Si possono proporre testi dove si trovino situazioni narrative simili a quelle che il ragazzo cerca di produrre e gestire. In somma, si può proporre (e questo deve essere esplicito, perché è motivante) un atteggiamento utilitaristico nella lettura. «Leggi questo libro che ti servirà, per questa e quest’altra ragione, ad affrontare quel determinato problema che incontri nella scrittura.» Se poi il ragazzo, una volta che avrà trovato quel che cerca, pianterà il libro a metà: poco male. Avrà sperimentato l’utilità del libro.

Se noi siamo convinti che l’educazione alla scrittura sia una parte importante di quella parte dell’educazione che viene impartita dalla scuola, e se questa convinzione si fonda sull’idea che saper scrivere è una cosa che serve per aumentare la consapevolezza personale e migliorare i rapporti interpersonali, allora capiamo che se il ragazzo leggerà un determinato libro per migliorare l’uso degli avverbi, successivamente di quel libro si ricorderà non come del «libro degli avverbi», ma come di un libro che avrà aumentata la sua consapevolezza personale e migliorati i suoi rapporti interpersonali.

Di che cosa parliamo, quindi, quando parliamo di insegnare a scrivere? Parliamo, semplicemente, di educazione della persona - e tutto il resto è strumentazione.

Giulio Mozzi