Meneghello,
lemigrante dalla doppia identità
Il
successo e la "filosofia" dello scrittore
vicentino che vive dagli anni 50 tra Inghilterra e
Italia dimostrano che le diversità linguistiche e
culturali sono fonte di arricchimento e non contrastano
affatto con la fedeltà e la lealtà alle proprie radici
e convinzioni civico-politiche. Come invece vorrebbero
suggerire le ultime folate di separatismo nel Nordest
Da quando Internet ci
collega in giro per il mondo non cè quasi più
gusto a coltivare certi hobbies sofisticati che una volta
appagavano e riempivano di soddisfazione i soggetti
apparentemente e geograficamente più emarginati.
Laristocratica
schizofrenia del provincialismo che si convertiva
puntualmente in aperture cosmopolitiche e in risarcimenti
in grande del piccolo tran tran quotidiano ha subito un
colpo forse irrimediabile.
Le logiche della
comunicazione virtuale e dei collegamenti in rete rendono
inessenziale una parte almeno della mobilità
tradizionale e tuttavia non hanno ancora surrogato del
tutto certe esperienze spartite che anzi, negli ultimi
decenni, hanno avuto modo di moltiplicarsi e di proporsi
in modo nuovo creando una varietà mai vista di
globetrotters reali e di persone effettivamente in
movimento sulla faccia del pianeta.
Fra i precursori di un
simile modo di vivere gli intellettuali, in senso lato,
avevano fatto più volte la prova dello sdoppiamento
ambientale e culturale e ce ne avevano spesso parlato, se
bravi scrittori, nei loro libri.
Luigi Meneghello , tra gli
italiani, è uno di loro e di quelli ormai di più lungo
corso.
La sua vicenda è
abbastanza nota: cresciuto nella provincia fascista e
rurale del profondo Nord, nel Veneto dellentre deux
guerres, studente modello e "littore"
giovanissimo nel 1940, ufficiale di leva allinizio
della guerra e poi partigiano fra il 1943 e il 1945, alla
conclusione del conflitto tenta di dare un senso (anche
politico) allimpegno resistenziale nelle file del
Partito dAzione e ne esce, come tanti suoi
compagni, amaramente deluso. A questo punto, più o meno,
matura la decisione di abbandonare, pro tempore,
lItalia e di tentare unavventura e una sfida
stimolanti altrove, in Inghilterra, dove poi, studioso e
docente universitario, rimarrà sino ai giorni nostri non
senza ritornare ogni anno "a casa", un po
per vedere come la va (o meglio come landava) in
patria e un po per farci alcune, meritate vacanze.
Messa giù in tre righe
ammetto che viene un po brutalizzata quella
chè invece una intensa storia di vita. Meneghello,
come scrittore, lha raccontata però in tanti suoi
romanzi. In ordine, anche se non quello cronologico di
uscita alle stampe, oltre allopera prima Libera nos
a Malo, Fiori Italiani, I piccoli maestri, Bau-séte, Il
dispatrio per non parlare dei frammenti distribuiti qua e
là in altri lavori (Jura, Maredè, Maredè ecc.) ossia
la sua intera narrativa ("Tutti i libri che ho
pubblicato - segnala da sé lautore - sono
collegati fra loro, come vasi intercomunicanti: cè
dentro lo stesso fluido che passa dalluno
allaltro. Forse è un esempio del "continuo
narrativo" di cui ho sentito parlare dai
narratologi..."). Alcuni delle sue riflessioni
senzaltro più "conversevoli" Meneghello
le ha messe assieme ora in un volume pubblicato in Italia
da Rizzoli.
Si intitola "La
materia di Reading e altri reperti" e contiene una
serie appunto di conversazioni tenute in diverse
occasioni fra il 1988 e il 1994 per lo più
"ricostruite" a memoria (o meglio sulla scorta
di appunti : la "scaletta" originale) e per lo
più più concepite come commento della sua produzione
letteraria pregressa.
Per un verso si tratta
certo di autopromozione, ma la cosa non è così semplice
perché da un altro la pratica nasconde
unossessione, quella del "pensarci su",
di tipo quasi filosofico ed esistenziale .
Nella premessa fuori testo
è Meneghello stesso a riferire il parere calzante di una
sua antica "compagna di studi" della Padova del
tempo di guerra che venuta ad assistere alla
presentazione della ristampa di uno dei suoi libri pare
avesse confidato ad un comune amico dopo aver battuto
garbatamente le mani: "Prima ci mette ventanni
a fare un libro, poi altri venti a pensarci su."
Il fatto è che nel
pensarci su sta la chiave di tutto o quasi tutto
Meneghello, compresa la doppiezza , nel senso buono del
termine ,delle sue esperienze esistenziali e culturali.
A Reading, nel Berkshire,
dove approdò nel 1948 e dove fece carriera
accademicamente parlando e nel Veneto in cui regolarmente
ritornava fu giocoforza che esse maturassero mettendo
alla prova, ma anche mettendo a frutto gli esiti di una
"polarità" che si era venuta formando sino ad
"investire quasi ogni aspetto della <sua> vita
intellettuale."
Arrivando in Inghilterra,
infatti, egli ebbe subito la sensazione di entrare in
contatto "con un sistema culturale radicalmente
diverso. Sentivo allora - continua Meneghello - e lo
verificai in seguito, che dal punto di vista di un
italiano la differenza era molto più grande che non
sarebbe stata per esempio in Francia, o in altre parti
del Continente.
Trovandomi dunque nel
mezzo di questo sistema così diverso, cominciai ad
assorbire una buona dose della sua sostanza, e la
assorbivo con avidità. Non si trattava di una cultura
che ne soppiantava unaltra, ma della formazione di
un secondo polo culturale.
Il risultato finale fu
infatti una forma di polarità....Era come se per poter
pensare, o perfino sentire, occorresse lasciar fluire la
corrente tra i due poli...."
Ho abbondato nelle
citazioni da La materia di Reading , la prima delle
conferenze che, come si è detto, dà anche il titolo al
libro, per due ragioni: una sostanziale relativa ai
contenuti e in qualche rapporto con lattualità di
un dibattito oggi più che mai in corsosulle identità e
le appartenenze (a maggior ragione nel Veneto
"serenissimo") e unaltra più privata e
personale. Partirò da questultima perché alla
performance verbale di quellormai lontano 25
novembre 1988 ero presente, mischiato, con mia moglie e
mia figlia, fra il pubblico composito degli amici di
Meneghello venuti da varie parti del mondo (ce
nerano da New York e da Parigi, da Bruxelles e da
Barcellona) ad ascoltare nel teatro della facoltà di
lettere dellUniversità di Reading la celebrazione
dei quarantanni di vita del centro, poi
dipartimento di studi italiani fondato dallallora
giovane conferenziere e sostenuto con passione da Donald
J. Gordon un professore scozzese "italianato"
di cui pure si ritroverà un commosso profilo nel libro
edito da Rizzoli.
Latmosfera era
quella tipica degli incontri fra lo scrittore e il suo
pubblico di lettori con in più laggiunta di un
pizzico di emozioni, se così si può dire,
"istituzionali".
Incontri non
frequentissimi per la verità e incrementati appena, in
quei mesi, dal lauro letterario conferito a Meneghello
dal premio Bagutta per il suo Bau-séte fresco di stampe.
Su di una rivista italiana
(e veneta) di storia che allepoca dirigevo, sotto
le mentite spoglie di Ampelio Scàraba, un altro del
gruppo venuto dallItalia notò che si trattava
comunque di occasioni di grande intensità emotiva
proprio perché lautore a decenni di distanza dalla
loro pubblicazione ritornava sui suoi libri (per
"pensarci su"....). Ma a Reading
lavvenimento acquistava, ai nostri occhi, un sapore
del tutto particolare.
La platea, infatti,
composta in gran parte di lettori appassionati, come
avrebbe detto Silvio Guarnieri e come chiosava appunto lo
Scàraba, si disponeva allappuntamento
"allincirca come ad una apparizione della
parola, propriamente al farsi carne ed ossa della parola,
che, si sa, è sempre faccenda di solenne mistero.
Venendo a Readingavevamo curiosità , oltre che per i
luoghi, anche per il pubblico: controllare come
funzionasse Meneghello in un contesto flemmatico per
definizione e nel quale era presumibilmente maggiore la
consuetudine con linsegnante piuttosto che con lo
scrittore." Funzionava, funzionava senza ombra di
dubbio e la conferma lavemmo anche nel dopo partita
durante il buffet anglosassone in cui furono scattate
numerose foto ricordo. Ne riguardo ora alcune mentre
rifletto sullessenza della Materia di Reading e
degli altri reperti in cui per la malvagità dei tempi
sono indotto a ricercare anche qualche risposta, connessa
ai contenuti di cui sopra dicevo, ai quesiti sulla
identità e sulle appartenenze. Mi colpisce un brano del
testo di apertura che allora non mi aveva fatto
particolare impressione anche perché ero tutto
concentrato nella per me sempre ardua traduzione
dallinglese. E il passo in cui Meneghello
riandando con la memoria alle difficoltà incontrate
dentro e fuori il mondo accademico locale per impiantare
e consolidare il suo istituto osserva letteralmente, e
cito il testo a fronte che devessere proprio quello
letto a suo tempo, "I know that the stress and the
danger have been great, but it seems remarkable how well
the department has survived. It is a great relief to be
able to conclude that our foundations were sound: Roman
masonry (or should I say Venetian masonry?) on the banks
of the Thames."
Le fondamenta, dunque,
erano solide: "murature romane (o dovrei dire
venete?) qui sulle rive del Tamigi."
Allinciso non feci
caso o forse, al massimo, lo imputai al fatto che tra gli
italiani di Reading che si avvalsero dellappoggio
di Gordon , per via delle affinità col Warburg Institute
e della comune passione per il Rinascimento, ci fu anche,
a un certo punto, uno degli amici più cari e più bravi,
come storico dellarte, di Meneghello ossia Licisco
Magagnato, il "Franco" dei Piccoli maestri e il
futuro direttore del Museo veronese di Castelvecchio.
Chissà chi ne interpreterà la parte nel film che in
questi giorni si comincia a girare a Padova per la regia
di Daniele Lucchetti, lautore
dellindimenticato Portaborse?
E chissà se lopera
cinematografica affidata per la sceneggiatura a un altro
personaggio noto come Domenico Starnone saprà cogliere
lo spirito del romanzo.... Ma il romanzo in questione si
collocava poi davvero in una "linea veneta"
della letteratura novecentesca, come più duno ha
scritto, e soprattutto in che modo, assieme agli altri di
Meneghello, rendeva testimonianza di una particolare
identità? Mi son venuti alla mente tutti questi
interrogativi accorgendomi in questi giorni, scrivo il 12
di maggio , che dietro a tante iniziative politiche del
particolarismo leghista e senzaltro dietro a certi
gesti sedicenti commemorativi (per ricordare la fine di
Venezia e lavvento della municipalità
rivoluzionaria del 12 maggio 1997 un manipolo di
scriteriati incursori sè impadronito per qualche
ora del campanile di San Marco inneggiando a un
fantomatico "serenissimo veneto governo": e
tutti i notiziari televisivi del mondo ne hanno parlato)
si ritrovano puntualmente le rivendicazioni culturali
della diversità e della separatezza. Culturali è un
aggettivo forse eccessivo per la portata delle
riflessioni teoriche che si dice si staglino dietro allo
stesso blitz marchesco del 9 maggio passato. E basti
sfogliare per ciò lopera di uno dei presunti
ispiratori dellatto dimostrativo su nientemeno che
quattromila anni di storia dei "veneti". Lo
storico, questo sì davvero "selvaggio", come
Mario Isnenghi ribattezzò una volta tanti imitatori
volontari, ma ben più agguerriti, degli storici
municipali dantan ,si chiama Giuseppe Segato e
naturalmente non ha niente a che spartire col povero
Meneghello da me chiamato in causa per assonanza di
questioni e per quellaltro aggettivo (in italiano
"veneto" - in inglese "venetian" e in
dialetto, a secondo dei luoghi però, assai più
"venessiàn " che veneto) destinato a connotare
non già unappartenenza quanto una provenienza.
Non meno di altri, penso
al franco-emiliano Pierre Milza e al suo Voyage en
Ritalie, Meneghello, in realtà, dimostra come le
polarità linguistiche e culturali siano fonte di
arricchimento e non contrastino affatto con la
possibilità di mantenere indenni le scelte di lealtà o
di fedeltà civico-politica. Che si possa essere debitori
a più culturee che ci si possa identificare in più
patrie non è facile, ma non è poi impossibile e già
con questo si potrebbero demolire le presunte basi
etniche e biologiche delle ideologie razziste che fanno
della differenza uno strumento di divisione e in
prospettiva di prevaricazione. Quando invece, a
"pensarci su" bene, tutto nelle storie di vita
di chi , pur venendo da un luogo e rimanendovi legato,
vive il mondo con atteggiamento laico, depone a favore
del contrario e in particolare oggi che i principali
dilemmi emergono in campo economico dal confronto fra
globalismo e localismo.Non saprei dire se in punto invece
di atteggiamenti confessionali, che per il Veneto han
sempre voluto dire clericali o cattolici, sia pure mutato
qualcosa nellera della dialettica più spericolata
fra generale e particolare , ma daltro canto non mi
mi azzarderei nemmeno a pronosticare come imminente la
fine delle mentalità o anche solo delle patine
superficiali di una ben nota fedeltà religiosa.
0gni tanto, parlando si
presume anche per conto dei "veneti"
doggidì, è il senatore Bossi in persona ad
attaccare il Papa e il Vaticano ossia una Chiesa rea
forse di contrastare qua e là lavvento del nuovo
ordine secessionista.
Certo che pure la Chiesa,
specialmente nel Veneto, non è più quella di una volta
. Lo stesso forse non può dirsi , per converso, dei suoi
seguaci sul conto dei quali, dallultimo libro
meneghelliano, mi piace togliere un passo dellunico
contributo scritto e non letto o non concepito per la
lettura dallautore (Batària, breve saggio estratto
da un volume in onore di Giulio Lepschy - Italiano e
dialetti nel tempo - edito a Roma nello scorso 1996).
Esso documenta assai bene,
a mio avviso, come anche in queste faccende a prima vista
fra le più viscose e intriganti quanto ad oggetto, il
mutamento abbia inciso in modo notevole e inaspettato, ma
confermando, per una determinata zona, la tenuta di
vocazioni culturali che si credevano connesse solo alla
fede religiosa e passibili quindi di annullamento dinanzi
allincedere della secolarizzazione, ma dipendenti
invece da tuttaltri fattori come, percitare il più
resistente di tutti , dal moderatismo (congenito?).
Racconta dunque Meneghello:
"Mancava alla mia
esperienza locale una cattolica intellettualmente
spregiudicata... e mi parve di averla trovata un giorno
al Passo del Brocòn. Lì su quei dossi bombati, così
ricchi di boasse, cera la casa di un conoscente
vicentino, chirurgo e cacciatore, e nella casa sua
mogllie che non conoscevo....mi piacque subito...era una
di quelle donne che ai miei tempi si chiamavano di
chiesa, ma molto bright e singolarmente libera nel
parlare e nel pensare. Diceva cose talmente sensate sulla
fede e la Chiesa e il fare i peccati e il non farli, che
già pensavo: Eccola, una cattolica vicentina
moderna! e cominciavo a chiedermi, per fatale
inclinazione di miscredente illuminato, come non crederla
sorella. A un certo punto, un po per far piacere a
lei, un po per il gusto di dire la verità, le
parlai della figura di Papa Giovanni XXIII (e per un
residuo di riguardo non le dissi che al mio paese era
affettuosamente chiamato Giovanni Schedina, due pari e
tre vittorie in casa), lodando la sua spontaneità, la
naturalezza contadina e lincredibile novità e
modernità del sentire....Ma lei ...non la pensava come
me. Anzi considerava quel Papa una calamità: Ha
fatto più danni lui mi disse con ardente affetto
che una scrofa su unaiola di asparagi
Parlavamo in vicentino e le sue parole furono: pì
dano de na ròia te na sparesara... Elettrizzante.
Un Papa roia! Una sparesara crudemente a sacco! Il nuovo
sentire religioso generava immagini di mostruosa
vividezza ma, per un onesto osservatore laico,
sconcertanti....."
Emilio Franzina
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