Una
scuola per il XXI secolo
Riportiamo
integralmente il documento del Ministro Berlinguer
riguardante l'informatizzazione della scuola italiana
Il senso del documento
La formazione delle nuove
generazioni costituisce per ogni governo una
responsabilità ineludibile perchè su di essa poggiano
la continuità e lo sviluppo del sistema democratico, la
solidità del sistema economico e industriale, l'armonico
dispiegarsi dei rapporti in divenire, le speranze di
tutti i membri della comunità. Fino ad una certa epoca,
la formazione ha avuto come suo nucleo fondamentale la
"trasmissione" di conoscenze consolidate, di
tradizioni, di consuetudini. Gli sviluppi della scienza
moderna hanno fatto emergere la necessità di affiancare
a tale tradizionale modello, la
"tramissione-acquisizione" di metodi, la
sollecitazione dell'intelligenza critica, della ricerca,
dell'approfondimento, la coniugazione più stretta tra
momento cognitivo e intellettuale e momento applicativo e
di indagine. L'accelerazione dello sviluppo delle
tecnologie ha poi profondamente inciso sulla
"stabilità delle conoscenze", sempre più
rapidamente "bruciate" dalle innovazioni; e,
nei paesi più avanzati, intere generazioni hanno
sperimentato il significato di "obsolescenza"
riferito ad abilità e capacità che l'evolvere dei tempi
aveva inesorabilmente reso inutili. Per altro verso,
proprio la instabilità dei "contenuti" del
moderno sapere ha dimostrato che la formazione deve
contenere in sè forti elementi culturali di tipo
generale, metodologico e di indirizzo, tali da favorire
la formazione della persona nella sua interezza e da
fornirle nel contempo gli strumenti per mantenere
aggiornati i livelli di competenza, di conoscenza e di
abilità. L'attuale sistema di istruzione e di formazione
italiano è praticamente stabile dagli inizi del secolo e
sembra ormai venuto il momento di porre mano ad un
intervento riformatore che pur possedendo memoria del
passato, prenda atto degli sviluppi della società, delle
condizioni presenti e dei possibili sviluppi futuri. Si
tratta di temi che, per la loro complessità, richiedono,
prima della presentazione del necessario provvedimento
legislativo, un approfondito confronto. Occorre pertanto
chiamare tutti, gli esperti del settore, i docenti, i
dirigenti scolastici, ma anche gli uomini di cultura, le
famiglie, le forze politiche, le associazioni, le
istituzioni del sociale, ad una riflessione dalla quale
scaturiscano proposte efficaci ed un dibattito sereno che
si svolga nella consapevolezza dell'interesse preminente
del nostro Paese e del suo futuro. Il presente documento,
che si fonda peraltro sul contributo degli studi e delle
discussioni condotte in tutte le sedi negli ultimi anni,
e tiene conto dei tentativi di riforma che sono stati
oggetto di divisioni anche profonde, è la proposta,
convinta, ma aperta a tutte le possibili modificazioni,
con la quale il Ministro della pubblica istruzione e il
Governo intendono avviare nel Paese il dibattito sulla
riforma dei cicli dell'istruzione e sulla realizzazione
di un sistema integrato di istruzione e di formazione, e
si assumono l'impegno, sulla base degli esiti di tale
dibattito, di presentare in Parlamento un disegno di
legge che tenga conto di tutte le istanze e di tutte le
proposte intese a migliorarne la configurazione.
La formazione come fattore
di sviluppo: necessità di un approccio globale
Nel corso degli anni '80
nei paesi industrializzati si è sviluppata la
consapevolezza della centralità delle risorse umane: a)
come elemento di governo dei fenomeni del cambiamento e
della complessità generati dalla mondializzazione
dell'economia e dei mercati, dalle innovazioni
scientifiche e tecnologiche, dal penetrante ruolo
dell'informazione, dalle trasformazioni sociali e
culturali; b) come strumento per sostenere la crescita
economica e la competizione a fronte di uguali livelli di
investimento. La qualità delle risorse umane disponibili
è stata riconosciuta come fattore strategico per lo
sviluppo e il mantenimento dei livelli produttivi e
occupazionali di ciascun paese. Il problema della
cultura, dell'istruzione e della formazione, come
strumenti per ottenere un'alta qualità delle risorse
umane è pertanto emerso in tutta la sua evidenza ed è
divenuto il volano di molti interventi riformatori che
dalla fine degli anni '80 hanno impegnato molti paesi
europei nel perseguimento dell'obiettivo prioritario
della "piena scolarità" per la costruzione di
un sistema chiamato tendenzialmente a portare tutti i
giovani al raggiungimento di risultati formativi
concreti. Tali interventi sono stati ovunque supportati
da ingenti investimenti finalizzati da un lato al
coinvolgimento di tutti i giovani in un percorso
formativo utile al raggiungimento di sufficienti
capacità e abilità (potenziamento quantitativo delle
risorse umane) e dall'altro a rimuovere ostacoli e a
valorizzare percorsi di specializzazione e vocazioni di
eccellenza (potenziamento qualitativo). Le soluzioni
adottate non sono state ovunque eguali: l'obbligo fino a
18 anni nel settore della formazione professionale per
chi non prosegue nella scuola (Germania, Belgio);
obiettivi di produttività prefissati (legge francese del
1989, che si è proposta di portare al diploma almeno
l'80% dei diciottenni e, in subordine, un'intera fascia
d'età alla qualifica professionale); l'estensione della
scolarità verso il basso e verso l'alto (Spagna:
sviluppo dell'educazione infantile e obbligo fino a 16
anni); la costruzione di opportunità differenziate dopo
l'obbligo, in modo da corrispondere alle aspettative di
tutti, favorendo però la possibilità di passaggio da un
canale all'altro; interventi contro la dispersione
scolastica (si ricordi la risoluzione CEE del 1989). Sul
piano legislativo la scelta è caduta più frequentemente
su grandi leggi quadro di riordino dell'intero sistema
(Francia, Spagna, Inghilterra, Belgio) inteso non solo
come "riordino funzionale", ma soprattutto come
ricerca di nuova qualità. Un po' dovunque ci si è mossi
nella direzione del decentramento e dell'attribuzione di
"autonomia" alle singole unità scolastiche,
per consentire un raccordo sempre più forte con il
territorio. Nei sistemi che si erano già orientati verso
scelte localistiche ci si è mossi invece nella direzione
della definizione di standard e momenti organizzati di
varia natura a carattere intermedio e nazionale. Dovunque
si sono sviluppati sistemi nazionali di valutazione allo
scopo di verificare la produttività scolastica, di
valorizzare le situazioni di eccellenza e di supportare
quelle di disagio. Gli obiettivi generalmente condivisi
sono stati: responsabilizzare i vari protagonisti, dando
loro maggior ruolo, consolidando il loro consenso;
avvicinare i luoghi dell'istruzione alla realtà sociale,
culturale, produttiva, occupazionale del territorio;
individuare standard generali. Oltre a soluzioni di
carattere strutturale (opportunità differenziate;
curricoli in parte comuni e in parte opzionali) hanno via
via acquisito importanza temi e problemi quali la
motivazione, l'orientamento, l'apprendimento, la
pedagogia del "contratto formativo", la
possibilità di personalizzare i percorsi e di tenere
conto dei diversi stili cognitivi, la centralità del
soggetto in formazione, la valorizzazione delle
differenze. Anche in Italia il dibattito sulla scuola
sviluppatosi nel corso delle ultime legislature ha
evidenziato, con grande chiarezza, l'esigenza di un
approccio globale al problema dell'istruzione e della
formazione, fondato su una riflessione e una prospettiva
strategiche, che necessariamente investono anche livelli
di istruzione già "riformati". I ritardi
accumulati dal legislatore italiano nell'affrontare il
problema dell'elevazione dell'obbligo scolastico, della
riforma della scuola secondaria superiore, del
rafforzamento della formazione professionale, del
riordino degli studi universitari, sono probabilmente
dovuti proprio alla progressiva consapevolezza, forse non
compiutamente espressa, ma certamente rinvenibile in
tutti i contributi parlamentari e culturali degli ultimi
anni, dell'insufficienza di singoli provvedimenti di
riordino degli attuali percorsi di istruzione e
formazione, fuori da un quadro generale che offra
risposte meditate e compiute a tutti gli interrogativi e
i problemi ai quali l'attuale sistema ha dato origine. La
stessa riforma del 1990 della scuola elementare -l'unica
dopo l'istituzione della scuola media unificata (1962 e
1977) e della scuola materna statale (1968)- ha messo in
luce, con estrema chiarezza, la necessità di garantire,
negli anni della prima formazione, una maggiore
continuità educativa ed ha sottolineato la
"solitudine" della scuola media, compressa tra
le nuove metodologie delle elementari e le metodologie
tradizionali della secondaria, punto di snodo di scelte
spesso non sufficientemente orientate e, comunque,
affidate ad un'età eccessivamente precoce. La necessità
di elevare istituzionalmente l'età della scolarizzazione
obbligatoria, da tutti riconosciuta come ineludibile, ha
avuto come esito principale quello di suscitare una
riflessione sull'efficacia e la funzionalità dell'intero
sistema. E' sembrato infatti piuttosto problematico
innestare l'elevamento dell'obbligo su un sistema che
manifesta forti penalizzazioni e un elevato tasso di
dispersione scolastica proprio nel primo anno della
scuola secondaria. Si è inoltre consolidato il
convincimento che il solo ridisegno istituzionale non è
sufficiente e che occorre preliminarmente dare risposte
di qualità ad alcuni quesiti. Cos'è oggi la
"cultura generale"? Quali sono gli elementi, i
requisiti, le qualità che la compongono? Sussiste ancora
la contrapposizione tra "cultura e
professione"? Quali sono i risultati in termini di
conoscenze culturali, di sapere tecnico, di sapere
pratico, che devono competere ai vari cicli, indirizzi,
comparti? Quali sono gli obiettivi quantitativi, da
coniugare con quelli qualitativi, che il Paese ritiene
necessari per garantire e sorreggere lo sviluppo e che
debbono pertanto essere indicati come obiettivi
irrinunciabili al sistema dell'istruzione?
Quadro di riferimento e
linee guida della riforma
In un mondo nel quale
l'evoluzione dell'organizzazione sociale e del lavoro fa
presumere che ciascun individuo, nel corso della propria
esistenza, sia chiamato a cambiare più volte la propria
attività lavorativa, è evidente che la pretesa della
scuola di consegnare saperi, abilità e capacità
definitive deve essere in parte abbandonata e che si
deve, invece, puntare allo sviluppo di requisiti quali la
capacità di apprendere, di scegliere, di cooperare, di
risolvere i problemi; occorre inoltre che il sistema
dell'istruzione perda la sua caratteristica di struttura
fortemente piramidale, dove ogni ciclo di studio ha
funzione fondamentalmente propedeutica rispetto ai cicli
successivi, per assumere una struttura modulare nella
quale ogni segmento identifichi precise soglie da
raggiungere e consolidi risultati spendibili in termini
culturali, scienticici e professionali. Solo una
struttura siffatta può garantire l'apertura del sistema
dell'istruzione a momenti diversificati di
approfondimento e di specializzazione e la sua
valorizzazione come risorsa utilizzata in modo sinergico
con la formazione professionale e con le altre offerte
culturali. L'innalzamento della qualità del sapere
richiede, poi, necessariamente, una rinuncia alla
quantità eccessiva delle nozioni. In una società
traboccante di informazioni e risorse culturali la scuola
oltre alla funzione fondamentale di fornire un approccio
sistematico alla conoscenza, deve offrire ai giovani le
chiavi per la lettura dei dati, la capacità di
orientarsi e di appropriarsi degli elementi necessari per
la crescita, per l'impostazione dei problemi, per la
scelta dei settori ai quali dedicare un approfondimento.
Ciò comporta necessariamente una riduzione quantitativa
dei "contenuti" in favore di un maggiore
approfondimento dei "nuclei fondanti" delle
diverse discipline e degli strumenti per svilupparne
ulteriormente l'esplorazione e la conoscenza e accrescere
le relative capacità. La capacità di apprendimento deve
essere potenziata e sviluppata per favorire la crescita
di autonomie individuali capaci di riconversione
professionale e di apertura alle evoluzioni dei saperi
nel corso dell'intera vita. E' questa, peraltro, una
scelta che ha trovato già valide risposte in importanti
esperienze della scuola secondaria superiore. La
consapevolezza di questo insieme di problemi, mai
affrontati in un disegno complessivo, ha costituito un
potente freno alla produzione normativa, causando un
forte ritardo nei confronti degli altri paesi europei.
Tale ritardo, ove non ulteriormente esasperato, potrebbe
anche rivelarsi un fatto positivo in quanto consentirebbe
di evitare alcuni errori di impostazione, facendo tesoro
non solo delle esperienze, ma anche degli errori commessi
da altri Paesi nella prima fase della riforma. Una
riflessione e una prospettiva strategica non possono
infatti prescindere da quanto è già in atto negli altri
Paesi europei, specie in un momento storico nel quale la
creazione di un mercato monetario unificato fa risaltare
le prospettive di mobilità e di interscambio
sottolineandone l'attualità e la concretezza. Sarebbe
peraltro inutilmente pessimista ritenere che l'Italia sia
all'anno zero. La realtà ha precorso, per molti profili,
l'intervento del legislatore e la scuola, utilizzando lo
strumento della sperimentazione, unico elemento vero di
flessibilità che abbia caratterizzato gli ultimi
decenni, ha già individuato vie, percorsi alternativi,
soluzioni, ipotesi che attendono solo di essere compresi,
valorizzati e riordinati in un sistema complessivo che,
superando gli invalicabili ostacoli frapposti da alcune
rigidità normative, raggiunga lo sviluppo naturale al
quale l'intensa attività di docenti, direttori
didattici, presidi, associazioni, l'ha già predisposto.
La stessa attribuzione di autonomia didattica e
organizzativa alle istituzioni scolastiche favorisce un
processo di sburocratizzazione e di valorizzazione della
collaborazione con altre agenzie formative che nei fatti
è già in atto da molto tempo e che ha visto negli
interventi per il recupero della dispersione, in quelli
per lo sviluppo della salute, in quelli per l'attuazione
di iniziative integrative e complementari, la
realizzazione di percorsi e di soluzioni diversi rispetto
a quelli tradizionali. Se poi si guarda alla intera
scolarizzazione, si deve registrare che nel paese c'è
stata una forte spinta alla sua complessiva estensione
sia verso il basso (scuola materna), sia verso l'alto
(scuola secondaria). Occorre ora fare uno sforzo di
sintesi, traendo dalla realtà ciò che di meglio essa ha
prodotto ed impostando una complessiva politica della
istruzione e della formazione che riorganizzi in un
sistema unitario e coerente ciò che il lavoro di
migliaia di operatori della scuola ha già individuato
come linea di sviluppo del sistema.
Gli obiettivi di fondo
Le considerazioni fin qui
espresse convergono nella necessità di dare vita da un
intervento di grande respiro volto alla modernizzazione
del sistema complessivo dell'istruzione e della
formazione, considerato come strumento essenziale per le
politiche di sviluppo sociale, culturale, economico e
dell'occupazione e fattore indispensabile per garantire
la crescita e la competitività del Paese. In questa
prospettiva gli obiettivi di fondo, frutto di un
dibattito ormai decennale, si possono ritenere ormai da
tutti condivisi e possono essere così sintetizzati:
-l'innalzamento dei livelli culturali e scientifici
generali; -la crescita di abilità e capacità
professionali e di una moderna cultura professionale; -lo
sviluppo di una cultura fondata sulla tolleranza, la
valorizzazione delle differenze e i valori del pluralismo
e della libertà; -la crescita della coscienza
democratica e la realizzazione di una cittadinanza piena
e consapevole. Anche su talune scelte di percorso si può
ormai registrare un consenso pressoché generale:
-l'elevazione della durata della scolarità obbligatoria
da otto a dieci anni; -l'affermazione e l'attuazione in
tempi ravvicinati del diritto alla formazione fino al
diciottesimo anno di età, per consentire a tutti i
giovani di conseguire un diploma o una solida qualifica
professionale; -la valorizzazione della professionalità
degli operatori della scuola e della formazione e la
valorizzazione di tutte le componenti nel governo e nella
gestione delle istituzioni scolastiche e formative; -la
realizzazione di un sistema di valutazione capace di
supportare l'autonomia scolastica e di individuare i
necessari interventi perequativi per uno sviluppo
armonico ed unitario dell'intero sistema scolastico
nazionale. A partire da tali convergenze, nelle pagine
che seguono si analizzano più in dettaglio le varie fasi
dell'istruzione e si elabora una complessiva proposta,
che si affida al dibattito generale del Paese.
N. B. Per una lettura più
agevole dell'intera proposta e per un suo raffronto con
l'attuale ordinamento e con gli ordinamenti dei maggiori
Paesi europei, sono state predisposte quattro tabelle,
che si allegano al presente documento.
La scuola di base
La distinzione
dell'istruzione scolastica in tre livelli, elementare,
media e secondaria superiore, è quasi del tutto
scomparsa nell'Unione europea. In alcuni paesi
(Danimarca, Finlandia, Portogallo, Spagna, Svezia) esiste
un primo livello di scuola di base della durata di 7, 8 o
9 anni, che comprende i vecchi livelli della scuola
elementare e media. In altri paesi (Austria, Belgio,
Germania), dopo la scuola elementare (primaria) si accede
alla scuola secondaria. In Gran Bretagna è in corso una
riforma per il passaggio dal secondo al primo modello,
con l'introduzione di una scuola di base da 5 a 14 anni.
In Francia l'insegnamento primario si indirizza agli
alunni da 6 a 12 e si svolge in 6 anni ripartiti in tre
gradi di due anni ciascuno. Nella maggior parte dei paesi
europei l'obbligo scolastico "a tempo pieno"
dura fino all'età di 16 anni. In Belgio, Olanda,
Germania, all'obbligo "a tempo pieno" segue un
periodo di obbligo "a tempo parziale" fino al
18° anno di età. La riforma della scuola media,
introdotta in Italia nel 1962, avrebbe dovuto trovare un
completamento nella riforma della scuola secondaria. Non
essendosi ciò verificato, si è prodotto un elemento di
discontinuità e di frattura nel percorso della scuola di
base e nei confronti della secondaria; discontinuità che
la riforma del primo segmento (elementare) e la mancata
riforma dell'ultimo (secondaria) ha vieppiù evidenziato.
Al di là dei problemi di architettura di sistema,
occorre ricordare che l'evoluzione dell'approccio ai
problemi della formazione, unito alle nuove conoscenze
pedagogiche, psicologiche e sociologiche ha determinato,
anche in Italia, col trascorrere degli anni, uno
spostamento sempre più sensibile dai temi
dell'insegnamento a quelli dell'apprendimento e che
l'approfondimento dei temi connessi all'età evolutiva ha
posto vieppiù l'accento sulle esigenze di flessibilità,
di continuità e di gradualità legate al rispetto dei
ritmi naturali di apprendimento degli alunni. Questa
maggiore sensibilità ha fatto risaltare con chiarezza la
vetustà di una concezione fondata sugli "ordini e
gradi di istruzione" in favore di una concezione
nella quale siano definiti "finalità" ed
"obiettivi", rispetto ai quali l'organizzazione
didattica delle discipline divenga uno strumento
flessibile per l'accrescimento costante della qualità
dell'offerta formativa. L'autonomia didattica e
organizzativa consentiranno di realizzare le necessarie
flessibilità, ma non garantiranno di per sé il
raggiungimento delle finalità di apprendimento se non
saranno accompagnate da una riforma strutturale che
garantisca la complessiva unità del percorso della nuova
scuola di base e dell'intera scuola dell'obbligo,
prendendo ispirazione dai naturali ritmi di crescita
degli alunni, individuando progressivi obiettivi
formativi, il cui raggiungimento sia costantemente
verificato. In tal senso i programmi ministeriali
dovranno trasformarsi da individuazione di contenuti a
individuazione di obiettivi e di standard di
apprendimento, intesi non come "contenuti
standardizzati", bensì come livelli differenziati
di raggiungimento degli obiettivi formativi. I percorsi
della scuola elementare e media potrebbero costituire un
unico segmento formativo, suddiviso in scansioni
temporali (ad esempio biennali), all'interno delle quali
si potrebbero introdurre momenti non traumatici di
verifica dei risultati, lasciando agli alunni i tempi
necessari per eventuali riprese, accelerazioni di
maturazione, etc., e fornendo loro, ove necessario,
sostegni personalizzati. Una scuola di base unificata
eviterebbe, tra l'altro, la ripetizione di identici
programmi in spazi temporali ristretti (si faccia
l'esempio della storia: tre anni di elementari e tre di
medie per studiare daccapo, dalla preistoria alla seconda
guerra mondiale, tutti gli eventi) e consentirebbe la
costruzione di percorsi meno compressi, con possibilità
maggiori di arricchimenti e approfondimenti. Il problema
della scuola di base è anche quello della sua durata,
che ha rilievo sia in relazione alla durata complessiva
degli studi, che in relazione all'età del passaggio
nella scuola superiore, che dovrebbe, per quanto
possibile, riflettere il transito naturale da interessi
più propriamente infantili a interessi pre-adulti. Si è
molto discusso sull'opportunità di anticipare di un anno
l'ingresso nella scuola elementare, al fine di consentire
ai ragazzi di lasciare il sistema scolastico al
compimento della maggiore età, analogamente a quanto
avviene negli altri paesi dell'unione europea. Il
problema è stato probabilmente mal posto e le soluzioni
finora prospettate risentono più del timore di ridurre
il numero complessivo di anni di scuola da 13 a 12, per i
riflessi che questo potrebbe avere sul personale docente,
che di una riflessione approfondita. Si deve ricordare
che l'anticipo dell'ingresso nella scuola elementare al
quinto anno di età è stato introdotto solo in Gran
Bretagna e in Olanda (in Grecia fra il quinto ed il sesto
anno); in realtà nella maggior parte dei paesi europei
l'età della scolarità obbligatoria inizia col sesto
anno di età e vi sono perfino paesi (Svezia, Islanda,
Norvegia) che solo recentemente hanno deciso di abbassare
da 7 a 6 anni la data di ingresso nel sistema scolastico.
Ci sono due considerazioni che non possono essere
ignorate: la permanenza degli ultradiciottenni nel
sistema scolastico, improntato a regole di disciplina e a
ritmi poco adatti a giovani uomini e donne già capaci di
autonome scelte, non giova né a loro né al sistema
scolastico nel suo insieme; l'ingresso troppo precoce in
un sistema scolastico fondato sull'orario di insegnamento
e sulla disciplina di classe può non corrispondere alle
esigenze del corretto sviluppo della generalità dei
bambini. Se si prende atto di queste difficoltà, la
soluzione più efficace può consistere nella costruzione
di un ciclo primario di sei anni, suddiviso in tre
bienni, complessivamente sostitutivo delle attuali
elementari e ai primi due anni della scuola media,
riducendo di un anno la durata complessiva degli studi e
lasciando ferma a sei anni l'età dell'ingresso nella
scolarizzazione vera e propria. Se a tale riduzione
corrispondesse una generalizzazione della scuola
dell'infanzia, da attuarsi rendendo obbligatoria la
frequenza almeno dell'ultimo anno -da intendersi come
anno preparatorio- (e così portando la durata
complessiva della scuola di base a 7 anni, articolati in
un anno del ciclo dell'infanzia e in sei anni di ciclo
primario), lasciando pertanto alla scuola dell'infanzia
stessa il compito della prima scolarizzazione intesa come
capacità di integrazione nel gruppo classe, di
svolgimento di attività in comune, di libero sviluppo
delle capacità naturali, di sostegno ad eventuali
difficoltà, il passaggio alla nuova organizzazione dei
cicli sarebbe probabilmente più agevole e consentirebbe
anche l'introduzione di momenti di flessibilità riferiti
alle esigenze individuali, in un raccordo costante tra
docenti e genitori che favorisca l'unitarietà del
processo educativo iniziale. A tal proposito è utile
ricordare che l'estensione della scolarità verso il
basso, attuata da taluni paesi europei, ha lo scopo di
prevenire per tempo le diseguaglianze e i rischi di
insuccesso scolastico. In tal modo la durata complessiva
degli studi continuerebbe ad essere di tredici anni, ma
sarebbe affidato all'ultimo anno del ciclo dell'infanzia
il compito, che peraltro essa gia svolge in gran parte,
di preparare la totalità dei bambini ai
"ritmi" della scuola, in modo che la prima
classe del ciclo primario si rivolga ad alunni già
pronti, con evidenti riflessi positivi
sull'organizzazione e i tempi del successivo
insegnamento. Ai primi due bienni successivi alla scuola
dell'infanzia dovrebbe essere affidato il compito di
provvedere alla alfabetizzazione culturale, tenendo conto
che questa, oltre ai tradizionali "leggere, scrivere
e far di conto" e alla formazione di corretti
collegamenti spazio-temporali, comprende, nella società
attuale, anche un primo avvicinamento alle tecnologie
informatiche, l'apprendimento di una lingua straniera,
etc. In questi due bienni dovrebbe essere favorita la
progressiva presa di coscienza critica del mondo
circostante (attitudine alla curiosità e ad apprendere)
e dei propri diritti e doveri (accettazione delle
differenze, imparare a cooperare). All'ultimo biennio
della scuola di base dovrebbe essere affidato il compito
di consolidare le competenze, abilità e conoscenze
acquisite nell'obiettivo di rafforzare i metodi
dell'apprendimento, incoraggiando l'autonomia dei singoli
verso l'approfondimento e sollecitando da parte degli
alunni una richiesta di saperi sempre più articolata. Il
passaggio nella scuola secondaria dovrebbe avvenire al
termine dell'ultimo biennio, i cui risultati dovrebbero
essere verificati con modalità diverse da quelle del
tradizionale esame, alla conclusione del dodicesimo anno
di età (e dell'infanzia vera e propria) e all'inizio di
quella che, per la generalità dei ragazzi e delle
ragazze, viene genericamente definita l'età dello
sviluppo. Per quanto riguarda gli insegnanti della scuola
elementare eventualmente in esubero, si deve ricordare
che una riforma di questa portata si attua gradualmente e
che si potrebbe sperimentare una utilizzazione degli
insegnanti eccedenti per un'assistenza programmata, nel
biennio successivo alla scuola dell'infanzia, agli alunni
che mostrino maggiori difficoltà di decollo e, comunque,
per la copertura totale delle necessità di supplenza;
prevedere una accelerazione dei programmi di formazione
degli insegnanti di seconda lingua; favorire la mobilità
professionale degli insegnanti già muniti di titolo di
studio adeguato verso l'ultimo biennio della scuola
primaria (l'obiettivo finale è, peraltro, quello di
avere insegnanti laureati in tutto il ciclo).Una
utilizzazione ricca di potenzialità e di importanza
intrinseca è inoltre lo sviluppo di un adeguato sistema
di educazione ricorrente, per gli adulti, la metà dei
quali è ancora priva di licenza media. Gli insegnanti
della scuola media dovrebbero confluire per due terzi
nella scuola primaria e per un terzo nel primo triennio
della scuola secondaria. Anche in questo caso il
passaggio potrebbe avvenire gradualmente, inizialmente
solo nel primo anno e successivamente, per mobilità
professionale anche negli altri due anni del primo
triennio. Si deve inoltre ricordare che, in un sistema
così riformato, diventa di vitale importanza poter
disporre, di figure di sistema che svolgano funzione di
tutoraggio, di aiuto e di sostegno nelle scelte, al fine
di realizzare un sistema di orientamento concreto. Gli
insegnanti della scuola elementare e media con adeguata
preparazione in questo senso potrebbero trovare agevole
collocazione in tali funzioni.
2. La scuola secondaria
Storicamente la scuola
secondaria non è nata come scuola di istruzione di base,
ma come canale di accesso alle professioni o diretto
(attraverso i titoli di studio abilitanti) o indiretto
(come preparazione all'Università) e, in definitiva,
come strumento per la preparazione della classe
dirigente. In Italia, come in Francia e in Germania, i
licei hanno svolto la funzione di preparare agli studi
universitari e all'esercizio delle professioni cosiddette
"liberali" e, in una certa misura, hanno
segnato una demarcazione tra strati sociali. Le riforme
adottate dai paesi industrializzati dopo il secondo
conflitto mondiale hanno abbandonato questo approccio,
che è stato mantenuto solo dall'Austria e dalla
Germania. Le modifiche sono andate nella direzione di
prolungare la funzione della istruzione di base non
professionalizzante, di integrare il sistema scolastico
con organici sistemi di formazione professionale, di
delegare molta della preparazione agli studi superiori ai
primi anni di università. Questo indirizzo ha raggiunto
la sua massima espressione nei sistemi anglosassoni
(Inghilterra e Stati uniti), dove i primi anni
universitari non si distinguono molto dalla formazione
liceale italiana o francese. Anche in Germania e in
Austria, dove il sistema dei licei è rimasto immutato,
l'insegnamento dei primi anni di università si è
notevolmente semplificato perché nella società moderna,
con la scolarizzazione di massa, la funzione della scuola
secondaria si è necessariamente ridimensionata. La
Germania ha peraltro dato vita ad un sistema duale, o di
doppio canale, che vede integrato nel percorso scolastico
un percorso forte di formazione professionale. Il modello
italiano è rimasto sostanzialmente l'unico in Europa che
non si è adattato allo sviluppo industriale; il concetto
di formazione professionale ha stentato e stenta a
decollare ed è comunque considerato inferiore al
concetto di formazione culturale, tanto che mentre
l'accesso alle professioni, ormai in quasi tutti i paesi
del mondo, avviene attraverso rapporti diretti col mondo
delle professioni e con l'esercizio pratico del mestiere
all'interno del curricolo di formazione, in Italia il
momento della formazione è costantemente rinviato, al
punto che la gran parte dei laureati non ha mai avuto
esperienze di formazione o di tirocinio. Una delle
preoccupazioni più spesso rappresentate dagli
intellettuali più legati alla tradizione con riguardo
alla trasformazione del sistema formativo italiano
concerne il rapporto tra "cultura" e
"professionalità". In realtà tale distinzione
(come quelle tra teoria e pratica, lavoro intellettuale e
lavoro manuale, ecc.) ha perso molto del suo significato
da quando si è cominciato a riconoscere che, di fatto,
in ogni livello e in ogni settore della vita lavorativa
esistono componenti culturali e professionali. Dovunque
sono necessarie conoscenze, abilità e, come si dice
oggi, "competenze" .Elemento connaturale alla
professionalità è il potere di controllo e di direzione
che il singolo e il gruppo hanno sul contesto lavorativo
in cui sono inseriti, ovvero la responsabilità che
ciascuno assume nella vita sociale e lavorativa. Le
differenze che si riscontrano tra i vari livelli e
settori sono più quantitative (quanto di autonomia, di
controllo, di complessità; quanto di conoscenze,
informazioni, abilità tecniche, operative) che
qualitative. All'interno di ciascun livello e settore
risaltano invece le differenze qualitative, che demarcano
le differenze individuali a parità di conoscenze,
abilità e responsabilità. Si è inoltre constatato che
fattore determinante per la crescita della
professionalità è il contesto lavorativo, che assume
forte vocazione formativa soprattutto in sistemi come
quello statunitense e giapponese, nei quali si è
sviluppato fortemente il discorso sul "controllo di
qualità" e sulla "qualità totale". In
tale visione si è compreso che la qualità dipende da
una grande varietà di fattori e dal grado di
responsabilità di ciascuno in ogni settore e ad ogni
livello; e si è verificato che il raggiungimento di un
grado soddisfacente di responsabilità presuppone
necessariamente una adeguata "formazione
culturale" supportata da una corretta filosofia ed
etica del lavoro. L'armonizzazione fra preparazione
cosiddetta culturale e preparazione cosiddetta
professionale è oggi un problema che interessa ogni
livello di formazione, dalla scuola elementare
all'università ed oltre, in una prospettiva di
educazione permanente che tenga conto del dato di fatto
che non esiste più una società nella quale prima si
studia e poi si lavora per tutta la vita, magari sempre
nello stesso posto di lavoro. Esistono comunque già
valide esperienze, in particolare nell'istruzione
professionale, dirette ad utilizzare in vario modo gli
insegnamenti generali per il rafforzamento della cultura
professionale. Occorre superare la concezione in base
alla quale certa cultura ha carattere
"disinteressato", mentre altra è finalizzata
esclusivamente alla applicazione lavorativa, per giungere
ad una visione complessiva ed equilibrata della
formazione, nella quale si recuperi la centralità dello
studente nella sua esigenza di crescita culturale e di
crescita nelle relazioni sociali e professionali. Occorre
anche superare la concezione che certi contenuti
culturali siano "riservati" a certi tipi di
studi, con esclusione di ogni possibile interconnessione,
mentre occorre coraggiosamente imboccare la via che
riconosce l'esistenza di forti analogie tra studi
apparentemente molto dissimili (si citi come solo esempio
il caso classico della musica e della matematica)
lasciando all'interno del sistema elementi di
flessibilità che consentano, nelle scelte opzionali, la
libertà di abbinamenti culturali e professionali che
aprano la via anche a strade fino ad oggi inesplorate. In
questa visione anche la ricorrente discussione sul liceo
classico può trovare interessanti soluzioni che pur
confermandone la tradizionale funzione di strumento di
acquisizione di conoscenze consolidate (il "deposito
culturale") ne accentui quella di conoscenza delle
culture antiche (e non solo greca e romana), nei rapporti
tra tali culture, nell'indagine archeologica, filologica,
bibliografica, linguistica e storica, al fine di
sviluppare capacità critiche, di indagine e di
confronto, con metodi che all'apprendimento passivo
affianchino la ricerca e l'intento interpretativo. Anche
il liceo classico, accanto alla principale finalizzazione
della propedeuticità agli studi ulteriori, potrebbe
pertanto assumere una connotazione anche
professionalizzante -da sviluppare, come per altro negli
altri indirizzi, negli studi post-secondari-, nella
direzione di offrire agli studenti metodi di studio e
capacità operative di ricerca, di analisi e di sintesi
tali da stimolare lo sviluppo di competenze e abilità
definite, che possano fondare livelli di responsabilità
e di autonomia individuali. E' comunque evidente che la
scuola italiana deve uscire dall'ambiguità ed imboccare
con decisione una strada che la caratterizzi e le
restituisca pienamente la sua funzione di formazione
delle future leve della società e di preparazione del
loro ingresso nel mondo del lavoro ai diversi livelli.
Perché ciò possa realizzarsi occorre fare lo sforzo di
costruire un sistema che fino ad una certa età consolidi
un quadro di conoscenze fondamentali per gli sviluppi
formativi successivi e favorisca la conoscenza delle
possibili opzioni e la corretta impostazione delle scelte
attraverso un orientamento progressivamente più mirato
e, da una certa età in poi favorisca l'approfondimento
esplicito delle scelte, pur senza pregiudicare la
possibilità di evoluzioni future. Ciò che sembra
importante è che sia gli anni dell'orientamento (con
tale termine intendendosi gli anni nei quali è
maggiormente favorita la mobilità tra i vari indirizzi
in relazione ai problemi connessi alla maturazione ed
alla crescita) che quelli terminali degli studi siano
attratti nella scuola secondaria, al fine di
sottolinearne la valenza adulta e l'importanza formativa.
La scuola secondaria potrebbe pertanto dividersi in due
segmenti, la scuola dell'orientamento e la scuola
superiore, ciascuno di durata triennale.
2a. La scuola
dell'orientamento e la conclusione dell'obbligo
scolastico
Il primo triennio della
scuola secondaria cade, nell'ipotesi in esame,
esattamente nell'età (13-15 anni) in cui i ragazzi e le
ragazze, in piena trasformazione, cominciano ad essere
pronti a compiere scelte di vita. E' essenziale, in
questo periodo, porli davanti a grandi opzioni su
percorsi predeterminati e tollerare il maggior numero di
ripensamenti compatibili con una evoluzione che li
conduca all'individuazione di ciò che veramente è loro
conforme. E' altrettanto essenziale che il ventaglio
delle possibili opzioni sia loro offerto nel modo meno
teorico possibile, nel senso che
"l'orientamento" non deve essere una
riflessione su ciò che si potrebbe fare in astratto, ma
deve sostanziarsi in un incontro concreto con diverse
discipline e attività, tra le quali scegliere. In questa
fase occorre attribuire ai genitori un ruolo attivo,
informandoli quanto più possibile sul carattere e sulle
finalità delle opzioni, al fine di consentire loro il
pieno esercizio dei compiti educativi. Il primo anno, di
necessità, è il più difficile da immaginare e
organizzare. I giovani, appena usciti dalla formazione di
base, hanno davanti a sé tutte le possibilità: dalle
lettere al giardinaggio, dalle scienze ai trasporti,
dall'arte allo sport. La differenza di genere, prima solo
immaginata ed intuita, diviene una realtà di vita. E
poiché non è immaginabile che si possa fare "tutto
insieme di tutto un po'", diventa inevitabile che
accanto allo studio di alcune materie definite
fondamentali (che tali restino per tutta la durata della
scuola secondaria), che riprendano e consolidino
ulteriormente le acquisizioni della scuola primaria, sia
loro offerto un ventaglio più allargato di grandi
opzioni e dei corrispondenti percorsi (a titolo puramente
esemplificativo si potrebbe pensare ad una parte
dell'orario da impiegare in corsi mensili, bimestrali,
trimestrali; a esperienze organizzate in collaborazione
con agenzie esterne; a qualsiasi iniziativa che le
istituzioni scolastiche programmino con riferimento alla
realtà territoriale). Col secondo anno della scuola
secondaria dovrebbe iniziare un orientamento più mirato,
da realizzare in un percorso predeterminato nel senso che
il ragazzo sarebbe invitato a scegliere tra diversi
indirizzi (ad esempio: artistico, classico, scientifico,
tecnico, professionale) già nettamente caratterizzati e
con i quali ha avuto primi, esemplificativi contatti, nel
primo anno. Per evitare che un errore di scelta possa
tradursi nella perdita di un anno, si potrebbe anche
organizzare il biennio in segmenti di durata
quadrimestrale (o inferiore), prevedendo che per la
conclusione dell'obbligo ne debbano essere
complessivamente frequentati quattro (o più), con
possibilità di passare dall'uno all'altro, di compensare
eventuali carenze in quello successivo attraverso
l'introduzione del "debito scolastico" e il
sostegno del tutor e, ove tutto ciò sia ancora
insufficiente, di ripetere solo un segmento invece che
l'intero anno scolastico. E' immediatamente evidente che
un'organizzazione di questo tipo rende necessaria
l'introduzione di figure di sistema necessarie per
supportare le scelte, gli eventuali ripensamenti e
passaggi. Sempre nell'ambito del nuovo obbligo scolastico
(di durata decennale) un ulteriore elemento di grande
novità potrebbe essere costituito dall'apporto che il
sistema della formazione professionale potrebbe dare alla
realizzazione degli obiettivi della riforma. Tale apporto
-previsto esplicitamente dall'Accordo sul lavoro del 24
settembre 1996- potrebbe sostanziarsi nell'arricchimento
della valenza orientativa e in particolare nell'offerta
di moduli improntati al "fare" e al "saper
fare", nella predisposizione di percorsi integrativi
di quelli scolastici per gli studenti che volessero
optare -ferma restando la frequenza degli insegnamenti
scolastici fondamentali- verso una scelta di maggiore
professionalizzazione nel corso degli ultimi anni di
obbligo. Quest'ultima possibilità potrebbe essere
realizzata attraverso convenzioni con centri di
formazione che abbiano requisiti predeterminati e diano
anche le necessarie garanzie culturali, continuando le
scuole a seguire gli alunni attraverso i tutor e
facilitando sempre, ove richiesto, il ritorno nella
scuola. Per gli alunni che abbiano intenzione di lasciare
gli studi al termine della scuola dell'obbligo, ma non
abbiano interesse a transitare subito nella formazione
professionale (magari nella prospettiva di riprendere
successivamente gli studi), potrebbero inoltre
immaginarsi iniziative integrative e complementari, anche
realizzate in convenzione con agenzie della formazione,
con associazioni ed enti operanti sul territorio, con
l'obiettivo di fondare prime capacità lavorative in
relazione alle esigenze del mercato del lavoro locale. Al
termine del terzo anno gli studenti, ivi compresi quelli
che hanno frequentato nell'ultimo anno i corsi di
formazione professionale, dovrebbero sostenere il primo
esame di Stato: la licenza della scuola dell'obbligo.
Tale licenza dovrebbe dare accesso agli ulteriori studi,
all'attività lavorativa e ai corsi di formazione
professionale e dovrebbe compiutamente attestare le
conoscenze e le abilità acquisite.
2b. La scuola superiore
In armonia con quanto
detto sopra, il triennio finale della scuola secondaria
(15-18 anni) dovrebbe avere carattere
professionalizzante, nel senso di offrire agli studenti
indirizzi corrispondenti a grandi aggregazioni
culturali-professionali, il cui numero, nelle ricerche
svolte sulle professioni in altri paesi (e in Italia
dall'ISFOL) varia da 7 a 11. Sono quelle che in Gran
Bretagna vanno sotto il nome di "famiglie
occupazionali". La vera novità del triennio finale
dovrebbe consistere nell'avvicinamento progressivo al
mondo del lavoro e nella possibilità di cominciare ad
esercitare talune capacità, ad esplorare talune
vocazioni, a formarsi un quadro complessivo
dell'organizzazione degli studi universitari e della
formazione avanzata, a compiere talune esperienze
lavorative. Le aree di progetto e gli stages potrebbero
essere il vero settore nel quale l'autonomia delle
istituzioni scolastiche realizzi, nel rispetto degli
obiettivi e degli standard nazionali, collegamenti con le
realtà culturali, scolastiche, formative e produttive
locali. La formazione di "tradizioni" proprie
delle singole istituzioni incoraggerebbe tra loro una
concorrenza non basata solo su dati quantitativi, ma
anche su dati qualitativi e stimolerebbe l'interesse dei
giovani a muoversi maggiormente sul territorio, con un
complessivo arricchimento degli scambi culturali. Se a
tutto ciò, nello sviluppo dell'autonomia, si
accompagnasse un potenziamento della circolazione delle
informazioni all'interno del sistema scolastico e la
nascita di abitudini di concertazione territoriale, di
iniziative comuni, di articolazione in reti tra loro
complementari, si potrebbe giungere a realizzare forme di
interscambio che garantiscano il riequilibrio
territoriale. Al termine del triennio dovrebbe sostenersi
l'esame di Stato per il conseguimento del titolo di
studio finale, col quale si potrebbe accedere
all'istruzione universitaria, ai corsi di istruzione
post-secondaria e ai corsi di formazione professionale
avanzata. Naturalmente il diploma finale di una scuola
siffatta dovrà indicare le conoscenze e le abilità
raggiunte. Al fine di non disperdere nessuna esperienza e
di facilitare la costruzione di curricoli personali
"spendibili" ed il passaggio dalla scuola alla
formazione professionale sarebbe altresì opportuno che
al termine di ciascun anno fosse rilasciato a ciascuno
studente un documento personale che certifichi le
competenze acquisite.
3. L'istruzione
post-secondaria
L'Italia è l'unico paese
al mondo che abbia, come istruzione superiore, cioè
post-secondaria, l'Università come canale pressoché
esclusivo di formazione. Per di più il modello
universitario italiano è ancora fortemente
caratterizzato dalla trasmissione di un sapere quasi
esclusivamente accademico, cioè di tipo cognitivo, nel
quale si presta ancora poca attenzione agli strumenti, ai
metodi, alle tecniche e, quindi, alle abilità ed alle
competenze operative e professionali che implicitamente
vengono trasferite dai docenti ai discenti. Un altro
aspetto peculiare è la mancanza di una vera
articolazione dei curricoli: ancora oggi la laurea è il
livello decisamente prevalente, quando ormai in quasi
tutti i paesi occidentali il primo livello
(under-graduate) è quello che qualifica il maggior
numero di studenti; inoltre i curricoli di studio spesso
sono costruiti senza una previa definizione delle
finalità formative. Le resistenze al cambiamento sono
tipiche del mondo accademico anche in altri paesi, dove,
talvolta, mutamenti nella struttura e nella vita
dell'istruzione superiore sono stati di recente imposti
dai governi (Gran Bretagna, Francia e Belgio) o favoriti
da una radicale de-regulation (Spagna e Portogallo). Uno
dei problemi più evidenti della crisi dell'Università
italiana è l'elevato tasso di insuccesso, ma ciò può
essere facilmente spiegato dall'assenza di altri canali
formativi. Non esiste tra l'altro, all'interno delle
Università italiane, attenzione al mondo dei servizi,
soprattutto di quelli maggiormente legati ai valori della
persona: è in via di organizzazione la formazione
professionale degli insegnanti; è grandemente carente
quella degli operatori dei servizi sociali e sanitari;
manca totalmente nei settori dell'organizzazione della
pubblica amministrazione, della giustizia, della ricerca,
dell'editoria, dei beni culturali, dell'arte, dello
spettacolo; è ancora gravemente lacunosa la formazione
nel settore dell'informazione; è inesistente quella nel
settore della valutazione della qualità dei servizi. I
modelli europei di riforma dell'istruzione superiore
ruotano tutti attorno al problema di cui si è parlato
prima con riferimento alla scuola secondaria: la risposta
che l'istruzione superiore deve dare ai bisogni della
società e l'equilibrio fra formazione culturale e
formazione professionale. In alcuni paesi dove esisteva
una lunga tradizione di distinzione fra le Università e
gli altri istituti di formazione superiore più
finalizzati (Gran Bretagna, Germania, Svezia e, in parte,
Francia e Spagna) si tende a riaccorpare all'interno
delle università le funzioni di formazione alle
professioni superiori prima svolte da questi istituti. Le
decisioni, spesso, sono motivate da ragioni finanziarie,
ma in ogni caso spingono le istituzioni più
professionalizzanti ad aprirsi ai problemi della
formazione culturale e della ricerca scientifica e,
viceversa, spingono le università ad aprirsi alle
necessità di formazione alle professioni. Al contrario,
in altri paesi anche molto diversi fra loro (Austria,
Finlandia, Grecia) è stata presa la recente decisione di
creare, a fianco delle università, istituti superiori
per la formazione professionale, sul modello di quelli in
via di estinzione altrove. Ciò in parte dipende da
differenze storiche, culturali ed economiche, ma in molti
casi dipende dalla resistenza più o meno forte del mondo
accademico alle riforme che la società ritiene ormai
improrogabili. In Italia l'unica esperienza veramente
moderna valutabile di istituti di istruzione
post-secondaria non universitaria è rappresentata dalle
Accademie di Belle Arti e dagli Istituti superiori per
l'industria artistica. Questi ultimi, in particolare, di
recente istituzione (a Roma, Firenze, Urbino e Faenza), e
con spiccati tratti professionalizzanti, hanno raggiunto
elevati livelli qualitativi e rappresentano anche una
lodevole eccezione per quanto riguarda la facilità con
cui trovano occupazione gli studenti che vi si diplomano.
Negli anni più recenti, all'interno del sistema
scolastico sono stati sperimentati anche corsi di
istruzione post-secondaria che hanno assunto particolare
ampiezza nel Mezzogiorno, grazie a specifiche
collaborazioni avviate tra singole Regioni e Ministero
della Pubblica Istruzione, nell'ambito spesso delle
iniziative cofinanziate dall'Unione Europea. Il recente
accordo per il lavoro sottoscritto dal Governo il 24
settembre 1996 con i rappresentanti delle organizzazioni
sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro ha creato
le condizioni per un sistemico sviluppo delle iniziative
di integrazione del sistema scolastico e produttivo e di
quello regionale. Ferma restando infatti la competenza
delle Regioni ad individuare i requisiti perché un
percorso formativo possa comportare il rilascio di una
vera e propria qualifica professionale, il Comitato dei
Ministri per le politiche della formazione istituito con
DPCM del 18 novembre 1996, potrà offrire la sede per il
protagonismo nel segmento formativo del post-secondario
di nuovi soggetti istituzionali e prima fra tutti, della
scuola, che specialmente attraverso l'istruzione
professionale ha accumulato esperienze e capacità
meritevoli di essere valorizzate. Solo attivando percorsi
alternativi agli studi universitari potrà, tra l'altro
arginarsi il fenomeno delle eccessive iscrizioni
all'università, determinato proprio dalla mancanza di
opzioni diverse. E solo attraverso tali percorsi si
potrà in gran parte recuperare tutta la dispersione
formativa conseguenza degli insuccessi universitari.
Occorre peraltro che i nuovi canali di istruzione
post-secondaria siano calibrati sulle richieste effettive
del mercato, italiano ed europeo, evitando di ingenerare
ulteriori illusioni, e impegnandosi perché essi
mantengano livelli culturali e formativi adeguati.
Perché ciò possa realizzarsi essi dovrebbero
innanzitutto perdere le caratteristiche più propriamente
scolastiche e le rigidità dell'insegnamento derivanti
dalla programmazione ministeriale. Le esigenze della
formazione hanno infatti caratteristiche di evoluzione
così rapida che un sistema centralizzato non può farvi
fronte. I due problemi fondamentali sono, pertanto, la
programmazione dell'offerta (da definire in ambito
regionale, ma in un quadro che tenga d'occhio tutto il
mercato italiano ed europeo) e il controllo sulla
qualità dell'offerta stessa (che dovrà essere
congiuntamente esercitato dalle Regioni e dallo Stato).
Riprendendo brevemente le considerazioni già espresse su
cultura e professione, occorre anche che ai percorsi
alternativi agli studi universitari sia attribuito un
valore (credito) spendibile per l'ingresso nel canale
degli studi universitari e che essi siano costruiti
modularmente, per segmenti autonomi e compiuti, ciascuno
dei quali definisca un livello di preparazione, abilità
e competenze.
4. Il sistema della
formazione professionale
Il sistema della
formazione complessiva, comprensivo delle opportunità
offerte dal sistema scolastico e dal sistema della
formazione professionale, deve divenire uno strumento
attivo della politica del lavoro attraverso il quale
attenuare gli effetti della disoccupazione causata dalla
obsolescenza delle conoscenze e per mezzo del quale fare
emergere l'enorme quantità di lavoro sommerso che ancora
esiste in Italia. Occorre peraltro superare la
concezione, finora dominante (come già è accaduto in
altri paesi, quali la Germania, nei quali la formazione
professionale iniziale si realizza nella scuola), che la
formazione professionale sia una scelta riservata agli
espulsi dal sistema scolastico, ai disadattati, a coloro
che trovano difficile inserimento nel mondo del lavoro;
solo in Italia il concetto di formazione professionale è
stato posto strumentalmente in alternativa a quello
scolastico. Questa immagine unilaterale e assai riduttiva
della formazione professionale era già da più di un
secolo in contrasto con la creazione di istituti di
formazione professionale a livello secondario e terziario
ed è ora in netto contrasto con la realtà stessa delle
politiche di formazione dell'Unione europea e di tutti i
suoi stati membri: si parla di formazione professionale
iniziale per i giovani e dei suoi nessi con la scuola, di
formazione di livello intermedio e superiore (cioè
post-diploma e post-laurea o parallela ai livelli di
istruzione universitaria), di riqualificazione
professionale per i mutamenti che intervengono nella vita
lavorativa, di formazione manageriale, di formazione come
ammortizzatore sociale della disoccupazione e, in
generale, di formazione continua. L'Italia è rimasto il
paese dell'Unione europea che meno investe risorse
proprie e meno provvede in materia di formazione
professionale, ed è noto che le ingenti risorse
comunitarie messe a disposizione del nostro paese per la
formazione (8 regioni su 20 rientrano nel primo obiettivo
della riforma dei Fondi strutturali dell'U.E) sono
utilizzate nel nostro paese in misura ancora ridotta.
Ciò dipende da molti fattori, tra i quali la mancata
riforma della scuola secondaria superiore, la mancata
definizione da parte dello Stato delle qualifiche che
debbono essere rilasciate dalle regioni e avere validità
sul territorio nazionale, la mancata individuazione di un
equilibrio tra formazione di base e formazione
professionale. Da tutto ciò deriva un oggettivo
sottodimensionamento, quantitativo e qualitativo,
dell'offerta di formazione professionale: poco più del
23% dell'intera scolarità post-obbligo (sommando tra
loro istruzione professionale di Stato e formazione
professionale) quando in altri Paesi europei tale quota
supera il 50% della scolarità. Il ragionamento appena
fatto sull'istruzione superiore vale dunque anche per
l'offerta post-obbligo del cui sviluppo l'Accordo sul
lavoro del 24 settembre 1996 ha posto le premesse,
prevedendone il potenziamento anche attraverso nuovi
rapporti da definire tra istruzione e formazione
professionale; un maggiore ruolo programmatorio e di
supporto delle Regioni, la riforma dell'apprendistato e
dei contratti di formazione e lavoro con la
valorizzazione del peso e del significato della
formazione. Vi si prevede inoltre un'offerta articolata a
tempo pieno e a tempo parziale, in alternanza tra
formazione e lavoro; un rapporto efficace e produttivo
tra sistema scolastico e sistema della formazione
professionale sia nella realizzazione dell'obbligo
scolastico, sia come arricchimento, integrazione,
specializzazione nel corso dei trienni della scuola
secondaria superiore. Costruire questa offerta -che
rappresenterebbe un fattore di forte novità per la
realtà e la tradizione scolastica e formativa del nostro
paese- costituisce una oggettiva necessità che dovrà
vedere impegnati il Governo, le Regioni, le parti
sociali, le istituzioni formative pubbliche e private. Il
settore della formazione professionale, colmando un vuoto
che è probabilmente l'aspetto che più ci differenzia
dalla realtà e dall'esperienza degli altri paesi
europei, è destinato a svolgere nei prossimi anni un
ruolo strategico, nella integrazione con il sistema
dell'istruzione.
5. Insegnanti e formatori
di fronte al mutamento:problemi e formazione.
Una complessiva
ristrutturazione degli ordinamenti scolastici e l'avvio
di un sistema di formazione professionale integrato
comportano inevitabilmente una piena valorizzazione del
personale della scuola e della formazione. In tale quadro
è necessario far tesoro della diversità delle
esperienze professionali accumulate e formate nel corso
delle carriere per la ricollocazione di tutto il
personale nel sistema, anche attraverso l'istituzione di
nuove figure finalizzate a garantire la qualità del suo
funzionamento e della sua organizzazione integrata. E'
inoltre indispensabile affermare nel concreto il
diritto/dovere di una formazione iniziale e in servizio
per il personale della scuola e della formazione. Il
primo criterio guida per la soluzione di tali problemi è
quello della valorizzazione delle professionalità
esistenti. Al personale della scuola e della formazione
va riconosciuto di essere stato -in attesa di un riordino
del sistema auspicato con sempre maggiore intensità-
motori e attore di ipotesi sperimentali e di preziose
innovazioni, pur nelle difficoltà causate dai vincoli
dell'attuale funzionamento. Molti dei risultati
conseguiti "sul campo" nella prospettiva del
mutamento debbono essere valorizzati e gli insegnanti e i
formatori, che sono i primi naturali esperti della
materia debbono essere protagonisti del dibattito che
oggi si apre, dando la loro fattiva collaborazione per
ottimizzare la proposta di riordino del sistema. Il
secondo criterio guida è quello di considerare i
problemi non in termini di vincoli, ma di risorse. La
diversità delle esperienze, le attuali professionalità,
la sperimentazione di nuove figure operanti nel sistema
costituiscono infatti un patrimononio irrinuncialbile per
individuare le modalità di ricollocazione degli
insegnanti e dei formatori nei nuovi cicli e nei nuovi
percorsi, che richiedono professionalità e competenze
composite e divesificate. Come si è già detto, inoltre,
in un sistema così riformato diventa di vitale
importanza poter disporre di figure di sistema che
svolgano funzioni di tutoraggio, di aiuto e di sostegno,
di organizzazione, progettazione, programmazione, al fine
di realizzare un sistema di orientamento concreto, di
garantire a tutti pari opportunità di successo
formativo, di prevenire e compensare le difficoltà di
apprendimento, di progettare i percorsi integrati. Vi
sono perciò ampi spazi per la riflessione e per
l'elaborazione di proposte che, lungi dal penalizzarle o
ridurle, riorganizzino e potenzino le attuali risorse
professionali. Il terzo criterio guida deve essere quello
di dare una riposta al problema della formazione degli
insegnanti e dei formatori. Il problema della formazione
iniziale degli insegnanti è sostanzialmente già avviato
a soluzione e nel giro di pochi anni dalle università
dovrebbero cominciare ad uscire i primi laureati e
specializzati per l'insegnamento. Nel frattempo sarebbe
opportuno mettere mano ad una riforma del reclutamento
che, superando l'attuale sistema fondato sulle classi di
abilitazione e di concorso, si orienti verso forme di
accertamento riferite ad ampie aree disciplinari e che
siano incentrate sia sul sapere disciplinare sia sulle
capacità didattiche. In tale ottica potrebbero essere
recuperate e valorizzate esperienze professionali
maturate anche in contesti extra scolastici. E, in ogni
caso, sarebbe bene riflettere se sia possibile prevedere,
per lo meno per alcune materie, un tipo di accesso
all'insegnamento diverso dal reclutamento stabile. La
carenza più vistosa del sistema formativo italiano
riguarda, però, i formatori della formazione
professionale in senso stretto. La soluzione
probabilmente va rinvenuta non tanto nell'individuazione
di un curricolo accademico più o meno rinnovato, ma nel
riconoscimento, nella convalida e nell'abilitazione alla
professione sulla base anche dell'esperienza acquisita,
della varietà della formazione avuta e così via. In
nessun altro campo come in questo è importante un
mutamento di approccio che permetta alle università non
solo di essere i luoghi in cui si impartiscono conoscenze
e competenze, ma anche luoghi in cui si riconoscono e si
accreditano le conoscenze e le competenze acquisite da
adulti che dimostrino capacità adatte al mestiere per
cui chiedono l'abilitazione. L'innovazione formalmente
più vicina ad una risposta alle esigenze di formazione
dei formatori in questo campo è la recente istituzione
dei corsi di laurea in scienza dell'educazione e delle
Facoltà di Scienze della formazione, definizione,
quest'ultima, fra le più innovative che si riscontrino
in campo europeo. La formazione degli insegnanti e dei
formatori non può peraltro esaurirsi nel solo percorso
iniziale universitario, ma deve prevdere -sia nella fase
di transizione sia a regime- tempi e momenti di
aggiornamento e formazione in servizio, senza escludere
un'ipotesi di periodi sabbatici e di stage nei sistemi
formativi europei, finalizzati alle nuove funzioni
richieste dal sistema, siano esse di insegnamento o di
ruoli di sistema.
6. Itinerario e tempi di
attuazione
Le considerazioni fin qui
espresse comportano, come logica conclusione, un
complessivo intervento riformatore che realizzi, in tempi
compatibili con l'obiettiva urgenza di modernizzazione:
-un modello di governo del sistema fondato sul
decentramento, sull'autonomia delle istituzioni
scolastiche, sulla sinergia tra i vari soggetti
istituzionali, formativi, sociali, sulla
responsabilizzazione dei vari soggetti e su un efficace
rapporto fra istruzione, formazione, territorio. -un
riordino complessivo dei cicli scolastici; -una revisione
dei programmi che, pur mantenendo indicazioni di
percorso, ne accentui le caratteristiche di indicatori di
obiettivi e di standard; -la realizzazione di percorsi di
istruzione post-secondaria; -una forte interconnessione
tra le politiche di sviluppo e quelle dell'istruzione,
della formazione, della ricerca. La prima parte di tale
intervento, conosciuta da tutti come "autonomia
scolastica" è stata già delineata in un disegno di
legge, già approvato dal Senato e attualmente all'esame
della Camera dei deputati, che in questi giorni dovrebbe
completarne la seconda lettura. In essa si delinea una
prospettiva di forte decentramento in favore di
istituzioni scolastiche autonome, che gradualmente
aquisteranno anche autonomia didattica e organizzativa e
capacità reali di collegamento col territorio e con le
altre agenzie formative. E' questo il presupposto
ineludibile per il passaggio ad un sistema che
responsabilizzi fortemente i protagonisti
dell'istruzione, liberandoli al contempo dei molti
vincoli burocratici dei quali patiscono la pesantezza. La
realizzazione degli altri obiettivi sopra delineati
richiede interventi articolati che potranno sostanziarsi
in atti di natura amministrativa e/o legislativa, a cui
dare corso in tempi differenziati ma rapidi, nel
rispetto, comunque, del progetto complessivo che sopra si
è delineato. Proprio la rilevanza delle finalità da
perseguire impone di porre la massima cura nella fase
attuativa cercando di conciliare, nel miglior modo
possibile, due esigenze parimenti importanti: la
necessaria gradualità che consenta di monitorare le
innovazioni introdotte e l'urgenza di dare al Paese le
riforme in modo che le giovani generazioni possano
immediatamente avvantaggiarsene. Questa linea operativa,
che partendo dal metodo processuale potrà avvalersi
degli strumenti di flessibilità previsti
dall'ordinamento vigente, consentirà di avviare subito
le innovazioni degli ordinamenti e di apportare in
itinere gli aggiustamenti eventualmente necessari. Sulla
proposta illustrata in questo documento vi è, comunque,
il dichiarato intento di aprire un ampio dibattito, al
quale chiamare a partecipare tutte le forze sociali,
politiche ed economiche del Paese, al fine di acquisire
validi contributi, sulla base dei quali mettere a punto
il progetto definitivo ed il connesso programma di
attuazione, sia in sede legislativa che amministrativa. A
tal fine, si può sin d'adesso precisare che se una parte
della materia oggetto di innovazione è chiaramente
riservata alla normazione primaria, ve n'è un'altra, di
non minor rilevanza, che può essere disciplinata con
norme regolamentari. In proposito è opportuno ricordare
che lo strumento regolamentare è dato dall'art. 205 del
T.U. dell'istruzione, approvato con il D.Leg.vo n. 297
del 16 aprile 1994, che consente di determinare le
materie d'insegnamento, con il relativo quadro orario, e
l'articolazione in indirizzi e sezioni dei corsi di
studio, mediante l'adozione di un decreto del Ministro
della pubblica istruzione di concerto con il Ministro del
Tesoro; consente, altresì, di determinare i contenuti
delle singole discipline, mediante decreto del Ministro
della pubblica istruzione. Tale duplice possibilità di
intervento legislativo ed amministrativo permette di
articolare i tempi di attuazione in fasi diverse, al fine
di pervenire rapidamente alla conclusione del processo
riformatore. Pertanto, una volta che sulla base del
dibattito saranno emerse le linee fondamentali del
disegno di riforma, si potranno avviare immediatamente ad
attuazione quelle parti del progetto che richiedono
interventi di natura amministrativa, di specifica
competenza dell'Esecutivo, in stretto rapporto con il
Parlamento, che nel frattempo avrà iniziato l'esame del
provvedimento. In sostanza, si potrà immediatamente
procedere alla revisione dei programmi d'insegnamento di
tutti gli ordini e gradi di scuola, al fine di realizzare
l'auspicato ammodernamento degli stessi e la loro
elaborazione in termini più rispondenti alle esigenze di
apprendimento dei giovani. In questo quadro sarà data
priorità agli ordinamenti del biennio e del triennio
della scuola secondaria superiore, da definire in maniera
coerente con il progetto riformatore complessivo, pur nel
rispetto delle attuali tipologie scolastiche.
L'approvazione da parte del Parlamento della legge di
riforma potrà dare inizio alla seconda fase attuativa
che si articolerà in due momenti di maggiore rilevanza.
Il primo riguarda l'innalzamento dell'obbligo scolastico,
che potrà avere immediata attuazione già nell'anno
scolastico successivo a quello in corso al momento della
entrata in vigore della legge di riforma. Ciò grazie
all'anticipato riordino del biennio della scuola
secondaria superiore in via regolamentare. Il secondo
riguarda l'attuazione dei nuovi cicli formativi. Se la
proposta fin qui illustrata trovasse il consenso del
mondo della cultura e del Parlamento i nuovi cicli
potranno essere attivati nel tempo massimo di tre anni,
mediante interventi mirati da operare contestualmente nei
punti di snodo dell'attuale ordinamento scolastico. La
cadenza degli interventi potrà riguardare l'adeguamento
dei programmi d'insegnamento delle classi relativi agli
anni scolastici sotto indicati, nel seguente modo (vedi
tavola 3 allegata):
A) nel primo anno di
attuazione della legge di riforma: - ultimo anno della
scuola materna (che diviene il 1° anno della scuola di
base) - 3° anno della scuola elementare (3° del ciclo
primario) - 1° anno della scuola media (5° del ciclo
primario) - 1° anno della scuola secondaria superiore
(2° del ciclo secondario) (già adeguata in via
amministrativa) - 3° anno della scuola secondaria
superiore (4° del ciclo secondario) (già adeguata in
via amministrativa)
B) nel secondo anno di
attuazione della legge di riforma: - 1° anno della
scuola elementare (1° del ciclo primario) - 4° anno
della scuola elementare (4° del ciclo primario) - 2°
anno della scuola media (6° del ciclo primario) - 2°
anno della scuola secondaria superiore (3° del ciclo
secondario) - 4° anno della scuola secondaria superiore
(5° del ciclo secondario)
C) nel terzo anno di
attuazione della legge di riforma: - 2° anno della
scuola elementare (2° del ciclo primario) - soppressione
del 5° anno della scuola elementare - in sostituzione
del 3° anno della scuola media, istituzione del 1° anno
del ciclo secondario - 5° anno della scuola secondaria
superiore (6° del ciclo secondario) (già adeguata in
via amministrativa). In breve, se la legge di riforma
venisse emanata prima dell'inizio dell'anno scolastico
1998/99, il nuovo ordinamento potrebbe essere completato
entro l'anno scolastico 2000/2001, proprio all'inizio del
nuovo millennio.
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