Una musica da
"suicide"
Esattamente
ventanni fa usciva a New York un disco fuori da
ogni genere ma che per la sua forza dirompente è
diventato una specie di simbolo
dellanticonformismo. Martin Rev e Alan Vega, i due
autori, non ne fecero altri. Ma ora si può anche dire:
la loro inquietante e scabrosa opera prima è forse la
più riuscita rappresentazione in note della decadenza
post-industriale
Suicide -
"Suicide" (Red Star)
Poiché sono già in molti a
celebrare anniversari illustri (la morte di Elvis) mi
piace celebrarne uno forse oscuro ma non meno
significativo. Sono infatti vent'anni giusti da quando
comparve sulla scena newyorkese questo dischetto, citato
da intere generazioni di musicisti come una delle
principali fonti di ispirazione. All'apparenza innocuo,
il primo e in realtà unico album dei Suicide è in
realtà un micidiale ordigno esplosivo di cui ancora oggi
si sentono le vibrazioni.
Da ragazzi, se si voleva
saggiare il supposto anticonformismo di qualche
appassionato di musica, lo si sfidava ad ascoltare tutto
d'un fiato tre dischi: "Trout Mask Replica" di
Captain Beefheart, "Metal Machine Music" di Lou
Reed e appunto l'omonimo dei Suicide, al secolo Martin
Rev (tastiere) e Alan Vega (voce). Pochissimi ce la
facevano.
Il duo si forma a New York
nel 1972, proponendo le prime performances in gallerie
d'arte contemporanea. I club e gli impresari musicali
infatti rifiutano sistematicamente di farli esibire.
Raramente riescono a terminare un concerto: gli
spettatori se ne vanno dopo pochi minuti o più spesso li
insultano e li aggrediscono. Faticano molto per trovare
un contratto discografico finché la piccola etichetta
Red Star acconsente a stampare la loro opera prima. E'
uno degli esordi più memorabili e allo stesso tempo un
canto del cigno, giacché dopo altre sfortunate
esperienze Vega e Rev decidono di proseguire ciascuno per
proprio conto carriere meno "estreme"
(soprattutto Vega piazzerà alcuni singoli di un certo
successo). Tornerano a incidere sporadicamente grazie
all'interessamento di un loro grande fan, Rick Ocasek dei
Cars, e a riunirsi per alcune tournées nel corso degli
anni '80.
"Suicide" a
vent'anni di distanza non ha perso il suo fascino
scabroso e la sua scontrosità. E nonostante il
pronostico di Alan Vega secondo cui "era solo
questione di tempo", Suicide sarebbe diventato un
disco di successo nel giro di un paio di decenni. Non è
tanto un disco difficile (come si usa dire a volte)
quanto un disco spiacevole, che mette di cattivo umore.
Le trame ossessive di Rev e il canto psicotico di Vega
aggrediscono l'ascoltatore dal primo all'ultimo minuto,
lo trascinano in una trance senza via d'uscita. Come i
citati Beefheart e Reed, i Suicide sfidano le convenzioni
della musica popolare ma la differenza è che lo fanno
senza alcun intento intellettualistico. L'operazione dei
Suicide è l'equivalente avanguardistico dell'approccio
de-evoluto e antiumano particato da gruppi come i Devo in
ambito pop-rock. Essa proclama la scomparsa biologica e
generazionale del soggetto per cui la musica popolare
giovanile era stata originariamente concepita e vi
sostituisce un linguaggio fortemente non espressivo,
ripetitivo e distaccato.
Ogni ombra di
soggettività e di emotività, ogni possibilità di
riflessione e comunicazione risulta negata, sommersa in
una stasi quasi catatonica. Incubi martellanti come
"Ghost Rider" e "Rocket USA", le
atmosfere angosciose di "Ché", le pulsazioni
anemiche di "Girl" emergono direttamente dai
meandri della metropoli come fumi di fabbrica e scorie
tossiche. Vega e Rev non fanno nulla per emendarli, per
smussarne le asperità, secondo il loro principio per cui
la musica dovrebbe "essere un momento
rivoluzionario, un momento per mettere gli uni contro gli
altri." "Suicide" è la rappresentazione
musicale più riuscita che sia mai stata data della
decadenza post-industriale.
M.B.
|