
E
Prodi-Maldini affrontò Rifondazione-Inghilterra
La
crisi aperta da Bertinotti e compagni che ha messo in
difficoltà il primo governo di centro sinistra vero
ricalca curiosamente le vicissitudini della nazionale di
calcio. Partita bene e incastratasi poi contro la
squadra-roccia dell’isola britannica. E ora
costretta agli spareggi. Così l’Ulivo con il
partito di Rfc, che ha confermato la tradizione del
peggior massimalismo italiano
Dopo un anno o poco più di pausa,
la politica italiana ha ripreso il suo corso tradizionale
e dissennato. Merito, come si sa, di Fausto Bertinotti e
del partito della Rifondazione Comunista di cui il
telegenico ex sindacalista è leader e segretario ab
intimis. Per la verità non se ne sentiva affatto il
bisogno. Star lì a battagliare su questioni pretestuose
e fra bizantinismi lessicali a non finire, infatti,
risulta estenuante più per chi questo tipo di politica
si trova a subirla (noi) che non per chi la pratica quasi
come unica ratio (lorsignori nella fattispecie in rosso).
Questo per dire intanto che se saremo superati dagli
eventi persino su Internet lo si dovrà imputare a un
ritorno di fiamma del vecchio modo di far politica.
Il modo, come vedremo
meglio più in là, si potrebbe definire, calcisticamente
parlando, "all’italiana". Tuttavia, prima
di sferrare il calcio d’avvio, facciamo un passo
indietro.
La crisi inattesa alla
fine è arrivata nel corso di una settimana convulsa fra
il 7 e il 9 di ottobre quando a due riprese, in
Parlamento, dove l’opposizione aveva giustamente
preteso che esso si svolgesse, un dibattito serrato e
persino drammatico si è consumato, sotto gli occhi di
mezza Italia incollata alla televisione, sul nodo della
finanziaria . Una finanziaria "leggera"
rispetto alle ultime, ma più ricca di tutte le
precedenti di aperture sul terreno della tutela sociale
che si possa oggi riconoscere ai ceti più deboli. A
Fausto il fatuo non è bastato e nel secondo round alla
Camera, non si capisce quanto in combutta con Cossutta,
reliquia dell’era brezneviana, in nome e per conto
suo e non già del proletariato privo di voce e orbo di
guida, il sardo Diliberto ha emesso il verdetto di
condanna a morte del primo governo di centro sinistra
vera che l’Italia abbia avuto da trent’anni in
qua.
Mentre scrivo queste note
sono in atto , da un paio di giorni per la verità, i
più diversi tentativi onde porre rimedio allo
"sbrego", come direbbe Miglio, procurato dalla
lacerazione a sinistra di un patto in origine di
desistenza solo elettorale, ma rimasto in vita sino ai
primi di ottobre di quest’anno anche per la buona
amministrazione del paese. Tant’è vero che
Rifondazione e Bertinotti, pur scalpitando e minacciando,
avevano concorso abbastanza disciplinatamente al varo dei
molti provvedimenti nel cui quadro dev’essere
inserita anche l’ultima e fatale
"finanziaria" della quale è stato
pretestuosamente criticato un presunto assetto iniquo e
squilibrato. Oltre a non esser tale vale appena la pena
di ricordare che esso comunque era noto da lunghissimo
tempo ai neocomunisti che ne avevano accettato, in
realtà, la filosofia e l’impianto. Ma allora
perché rompere e, soprattutto, perché dannarsi poi
l’anima per ricucire?
Sulle ragioni che hanno
indotto Bertinotti a tirare la corda finché non si
spezzasse si possono avanzare alcune ipotesi plausibili e
persino comprensibili: la paura di finire annullati nel
blocco dell’Ulivo perdendo identità, voti e
consensi; la verifica ripetuta di un fastidioso
atteggiamento di sicurezza dei partner, specie pidiessini
e infine i problemi interni di partito. A ciò si
aggiunga, per merito in un certo senso dell’infausto
Fausto, la questione delle incompatibilità caratteriali
dove non è difficile scorgere il peso
dell’arroganza di D’Alema versus
l’egocentrismo di Bertinotti oppure lo spirito di
concorrenza di quest’ultimo nei confronti della Cgil
e del sindacato, sentiti su certi temi più come
antagonisti che come alleati.
Va detto, a onor del vero,
che non tutto si può ridurre a fattori o a motivi
d’ordine psicologico: a parte la spocchia ben nota
di D’Alema, Rifondazione poteva ben lamentare la
mancanza di un accordo preventivo sui singoli punti della
finanziaria presentata quindi, nelle linee essenziali, a
sua informale insaputa e comunque senza il beneficio di
una discussione preliminare. La discussione si è avuta
poi in aula e si è visto come sia andata, ma intanto non
sarebbe stato male aver tolto a Bertinotti un alibi
corposo del quale era prevedibile che si sarebbe servito.
Il punto, peraltro, sta proprio qui perché non è detto
che la crisi fosse prevedibile più di tanto. Qualcuno
dei commentatori politici che vanno per la maggiore è
giunto a sostenere che la rottura sarebbe stata preparata
freddamente a tavolino ed anche con largo anticipo
sull’appuntamento parlamentare d’inizio
ottobre. Personalmente non ne sono persuaso anche se è
pensabile che di fronte agli eccessi di sicurezza di
Prodi e a qualche punta di sicumera di Mussi e di
D’Alema, da parte dei neocomunista una qualche
riflessione nel corso dell’estate ci sia stata.
Più
controverso e però di nuovo non legato soltanto ai lati
brutti del carattere dei contendenti mi sembra si sia
rivelato lo scontro a distanza col sindacato, anche per
il peso che le dichiarazioni di Cofferati sulla
possibilità di addivenire a un taglio misurato delle
pensioni di anzianità hanno finito per acquistare
durante il dibattito già in corso alla Camera. Le
idiosincrasie personali tra Fausto il presenzialista
televisivo e il serissimo antidivo Cofferati, detto il
cinese, vanno ben oltre, insomma, la scelta dei luoghi o
dei modi della moderna propaganda: in gioco c’è il
ruolo del sindacato, non solo della Cgil, ma di tutte le
maggiori confederazioni, nel nostro paese e in più la
vertenza su chi ne debba ispirare le decisioni.
All’unisono gli esponenti del Polo sono insorti
indignati e non si sono lasciati scappare
l’occasione per denunciare la difformità del
comportamento sindacale oggi rispetto a un paio di anni
fa quando era stata proprio la mobilitazione degli
iscritti alla cosiddetta "triplice" a dare al
Governo Berlusconi un primo imponente scossone.
Tornando però a noi
occorre commentare, dopo averne segnalato le possibili
giustificazioni o spiegazioni minime, la natura e gli
effetti del gesto d’intransigenza compiuto da
Bertinotti. Esso si inserisce, in realtà, nel solco di
una tradizione, quella del peggiore massimalismo italiano
e mette a nudo l’irriducibilità ideologica e
pratica dei neocomunisti ad una prospettiva di
pragmaticità e di buon senso. Oddio! Pragmatici lo sono
alla maniera "realista" di Cossutta, memore sia
della doppiezza togliattiana sia della lezione
terzinternazionalista su strategia e tattica. Il loro
orizzonte, però, deve rimanere quello utopico e
svicolare di fronte alla pessima riuscita fatta in più
di cinquant’anni dai regimi comunisti incarnatisi
sin qui nella storia dell’Europa e del mondo. Quanto
agli effetti, non credo ancora ad una rottura
irreparabile specie dopo aver misurato le reazioni
dell’opinione pubblica di sinistra, compresi non
pochi neocomunisti (più di simpatie che di tessera
peraltro) di "base".
Essendo lo sbocco della
crisi obbligato: o nuove elezioni o inciucio alla grande
(nella versione "tecnica" con un apporto di
voti Ccd e Cdu tale da prefigurare l’inattesa
resurrezione della Dc, nella versione berlusconiana con
una convergenza tipo bicamerale di "larghe
intese") su Bertinotti e su Rifondazione grava per
intero la responsabilità dell’estinzione di un
governo che non aveva, per il senso comune, mal operato.
Questo si è percepito e anzi si è sentito nei giorni
seguiti al dibattito alla Camera e questo devono aver
inteso i rifondaroli nostrani che, complice o auspice
Jospin con le sue misure di riduzione degli orari di
lavoro, si sono detti disponibili, già lunedì 13
ottobre ad una ripresa delle trattative con l’Ulivo
il quale, dal canto suo, ha dato presto mostra di
gradire. In discussione è ritornato il nodo delle 35 ore
settimanali e chi vivrà vedrà.
In Francia c’è già
stata l’alzata di scudi di Confindustria, qui Fossa
è prevedibile che tirerà su come minimo le barricate,
ma intanto si comincerà a trattare sulla base di un
disegno di legge ventilato dai Verdi e di probabile
applicazione allungata (una riforma a regime solo dopo il
2000?). Come andrà a finire, dunque, non so, benché
ritenga che
le cose si aggiusteranno
con due brutte figure equamente distribuite fra le parti
in causa e con un lieve, ma proprio lieve recupero
dell’opposizione polista. La figura peggiore, anzi,
diciamolo, pessima l’ha già fatta con Rifondazione
Fausto il vanesio: se anche porterà a casa un qualche
risultato (ma non certo l’affondamento della
finanziaria illustrata da Prodi) è lui il vero sconfitto
nel braccio di ferro col governo di centro sinistra e lo
si capisce dalla paura che gli ha messo, quasi come alle
destre, la prospettiva di un confronto, meglio di un
redde rationem, elettorale. L’altra brutta figura è
dell’Ulivo rivelatosi non tanto "succube",
quanto alla mercé dei rifondatori e incapace di gestire
in modo efficace i rapporti con loro. Il Polo, dal canto
suo, schivata la iattura delle elezioni anticipate, alle
quali sarebbe andato allo sbando o con un leader diverso
dal Berlusca le cui azioni (politiche) sembrano in netto
declino, ha incassato solo una boccata di ossigeno. Prima
della bella pensata di Bertinotti era dato a ragione per
morto o quasi morto: adesso si è rimpannucciato e può
strillare al lupo comunista che si sta mangiando uno alla
volta gli alleati. Non è granché, ma al momento può
bastare.
Non basta invece a noi e,
crediamo, all’opinione pubblica responsabile di
tutto il paese, che dalla crisi minacciata si esca senza
averne provato le conseguenze attraverso un sorta di
compromesso a tempo. Evidentemente il difetto, come si
diceva una volta, sta nel manico e delle due l’una:
o si riformerà la legge elettorale o in Italia una
stabilità di governo rimarrà ancora a lungo chimerica.
In prima istanza a Prodi
è andata come alla Nazionale di Maldini che dopo aver
fatto bene quasi tutto si è ritrovata davanti ad uno
scoglio insuperabile, l’Inghilterra più rocciosa e
ben disposta degli ultimi anni, così da dover attendere
il responso di uno spareggio, il 29 ottobre venturo,
nientemeno che con la Russia.
Siccome presumo, benché
possa essere smentito dai fatti, che nel giro di qualche
giorno Ulivo e Rifondazione, sputtanandosi un tantinello,
ce la faranno a rimettersi insieme per un anno o due, non
c’è che da augurarsi che a Maldini e ai suoi
ragazzi un’impresa consimile riesca nel calcio:
sarebbe un’altra qualificazione all’italiana,
ma che lo stellone protettore ci sia lo avrebbero già
dimostrato gli uomini di buona volontà dell’Ulivo
contro ogni tentativo o sforzo in contrario di Bertinotti
e di Cossutta (a proposito: per chi tiferanno i due nello
spareggio coi russi?).
Le uniche elezioni che si
profilino sull’orizzonte rimangono dunque quelle
della Lega secessionista di Bossi e precederanno di tre
giorni l’incontro decisivo degli azzurri, quelli
veri per i quali è lecito gridare "Forza
Italia". Senza essere sospettati di voler fare il
tifo per il partito azienda di Berlusconi e per i mille
problemi che la sua esistenza (ma sarebbe meglio dire
sopravvivenza) sta creando ogni giorno di più
all’opposizione di destra che nemmeno dello svarione
terribile dei suoi antagonisti ha potuto, come si è
detto, approfittare più di tanto perché paralizzata
dalle sue proprie contraddizioni e da un ormai arcinoto
conflitto di interessi. Interessi in conflitto,
intendiamoci, ce ne sono anche nell’altro campo ma
sembrano, come pure si è visto, di tipo del tutto
diverso.
Finché alcuni di essi
riguarderanno la lotta per avere la leadership di classi
e ceti sociali tradizionalmente cari alla sinistra
c’è il rischio che procurino qualche problema di
troppo all’interesse generale del paese.
Emilio Franzina
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