Index Primopiano - Settembre 1997

L’Architetto di Dio

Ignora il computer perché "senz’anima" e si definisce "progettista-artigiano; pensa che creare edifici sia come mettere al mondo un figlio; crede che le grandi idee debbano essere realizzate per resistere millenni. Nell’intervista esclusiva per Nautilus l’architetto Vittorio Gigliotti racconta cosa vuol dire oggi, alle soglie del 2000, dedicarsi all’architettura religiosa. Dall’Islam al cattolicesimo

Come si fa a diventare Vittorio Gigliotti?

Un detto islamico recita che gli incontri nella vita sono - come in un tappeto persiano - i nodi su cui vengono tessute le trame. L'incontro con certe persone dà delle direttrici determinanti per la tua vita. Nella mia vita professionale io indico due incontri fondamentali: quello con Bruno Zevi, sul lavoro, a Salerno, che instaurò subito un profondo rispetto reciproco e portò, alla fondazione dello "Studio AZ Architetti e ingegneri" nel quale eravamo partner a pari livello.

Dopo quattro anni di attività comune, nei quali, grazie anche ad un forte legame tra di noi, realizzammo molte opere interessanti, Zevi si volle ritirare per dedicarsi in pieno all'università e dopo ventiquattro ore, Paolo Portoghesi, che avevo conosciuto presso la rivista "L'architettura", mi chiese se volevamo fondare una società insieme. Quindi il secondo incontro importante della mia vita è stato quello con Portoghesi, con il quale per oltre 28 anni ho avuto una società di progettazione a pari livello produttivo. Fino al 1982 l'esecuzione dei lavori era svolta completamente insieme, poi abbiamo incominciato ad eseguire alcuni lavori anche separatamente.

Com’è stato lavorare con Portoghesi ?

Con Portoghesi ho realizzato il sogno del professionista: "l'ingegnere-architettonico", perché noi abbiamo integrato perfettamente le nostre attitudini personali. L'ingegnere, da solo, non ha la capacità di realizzare opere, per cui si verifica la condizione in cui l'architetto crea e l'ingegnere integra.

Nel mio caso questo non s'è verificato perché io sono stato, sia con Zevi sia con Paolo Portoghesi, autore architettonico delle opere da noi realizzate, e solo in seguito realizzo tecnicamente i lavori nei molteplici aspetti del lavoro, dalla gara di appalto fino alla direzione dei lavori. Questa è la qualità ottima del progettista.

Che cos'è l'architettura per lei?

L'architettura è un mezzo dell'uomo per creare quello che occorre all'uomo stesso per vivere secondo una legge che non sia una legge primitiva, e per vivere in un ambiente che dia la possibilità di realizzare una personalità fautrice di una società civile. L'architettura è un insieme molto complesso di aspetti concomitanti: da quello funzionale a quello economico, da quello ambientale a quello strutturale. L'opera non deve essere solo un "contenitore", bensì deve esaltare il modo di vita di chi usufruisce di questa architettura e sottolinearne i valori architettonici e spaziali in maniera da costituire l'integrazione con chi vive al suo interno.

Le opere convincenti sono quelle che sono ambientate nella cultura e nella tradizione locale architettonica. Per esempio un'esigenza fortissima sentita da me e Portoghesi è stata quella di integrare la moschea nella Roma antica, oltre fare un'opera di architettura islamica. In secondo luogo tali opere devono esprimere all'esterno il contenuto dell'opera. Non possono avere lo stesso carattere esterno ed inoltre devono servirsi della parte strutturale come parte determinante nella definizione dello spazio.

Poi c'è un altro aspetto che voglio spiegare con un esempio facendo riferimento al centro Pompidou a Parigi. Io non condivido il modo di impiegare l'architettura per l'uso di materiali che tra trent'anni dovranno essere sostituiti. Questo rientra nel consumismo industriale del nostro secolo, che serve solo a distruggere il mondo. Un'opera che ha un suo valore deve rimanere a testimoniare nei secoli la cultura, la civiltà, l'architettura di quel tempo; ed il Pompidou questo non è in grado di farlo, perché è ovvio che non potrà, nel tempo, essere rifatto tale e quale. I materiali della moschea, invece, dall'esperienza, che se ne è avuta a Roma, resistono tra i tremila ed i quattromila anni.

Che cosa prova quando completa la realizzazione di un'opera, ne è soddisfatto?

Molto: è come aver messo al mondo un figlio.

E quando la rivede, prova la stessa soddisfazione?

Sì, amandola ed ammirandola sempre di più; perché più di un figlio ha l'immutabilità ed il silenzio, e lo stesso rapporto col suo autore è un rapporto di ascolto.

Quanto si appassiona alla realizzazione dei suoi lavori?

Io ho dedicato, sempre, tutto me stesso a qualunque opera lavorassi, perchè non è l'amore ad un singolo programma architettonico o per una singola opera ad appassionarmi, bensì l'amore per l'architettura e l'opera d'arte in generale. Se io decido di lavorare ad un'opera, questa penetra al mio interno e diventa parte della mia vita.

Naturalmente ognuna di esse ha un modello espressivo diverso che le deriva dal genius loci, ovvero dalla sua collocazione in un luogo dove vi è un ambiente naturale, un luogo, un ambiente architettonico, un modo di vita che va riprodotto. Un'opera non può essere la stessa a Chicago e contemporaneamente a Parigi, Londra e Taranto.

Quanto si riconosce nelle sue opere?

In pieno. E le opere che ho eseguito stanno a testimoniare la mia dedizione completa verso di esse. Io sono un "progettista-artigiano" che sceglie le sue opere e che non accetta una quantità di lavori per avere un enorme curriculum ed introitare eccezionali compensi. Se l'opera non è convincente nei suoi contenuti faccio a meno di entrare a lavorare su questo progetto. Io ho rinunciato sia all'attività universitaria sia ad altre attività collaterali per occuparmi esclusivamente della professione.

Qual è la metodologia messa a punto da lei e Paolo Portoghesi?

Noi rappresentiamo lo spazio architettonico non come una scatola da riempire, ma come un sistema di luoghi che crea tanti poli connessi alle funzioni, ovvero alla vita che l'uomo svolge in questo edificio, che possono essere anche poli di luce o poli simbolici, come in edifici religiosi. Questi vengono rappresentati come se fossero dei poli magnetici emananti delle onde, dando risalto architettonico alla funzione che viene svolta in quel determinato edificio. Nella moschea, per esempio, la struttura fa da decorazione.

Parliamo ora della moschea di Roma. Lei crede che la moschea sia il risultato di una koiné culturale, oppure teme che una cultura abbia prevalso su un'altra?

Il risultato è stato sicuramente la fusione di due culture, di due mondi differenti.

L’ha mai turbata l’ipotesi che la Moschea potesse divenire una sorta di copertura per lo spionaggio internazionale, idea che fu ventilata da molti all’inizio dei lavori?

Assolutamente no. Conosco sufficientemente bene il mondo arabo per affermare che nessuna autorità di un paese islamico confonderebbe gli interessi religiosi con quelli politici e spionistici. E poi, diciamo la verità, purtroppo o per fortuna non c’è bisogno di realizzare un’opera così costosa per portare a Roma un gruppetto di spie...

Mentre lei stava lavorando alla moschea, nel 1989, lei ha vinto il premio biennale ingegnere europeo ed è stato il primo italiano a potersene fregiare: ci racconta un po' qualcosa al riguardo?

Il premio, fino allora, era stato sempre assegnato per lavori chimici o industriali ed era la prima volta che qualcuno vinceva con un edificio di ingegneria civile o addirittura di architettura religiosa. Ad ogni modo, tramite la society of engineers fondata a Londra nel 1854, si riunì un comitato per scegliere i più importanti ingegneri dei dodici paesi della Cee, ed all'interno di questo gruppo di persone venni scelto io - all'unanimità - come il migliore ingegnere europeo.

Quale fu la motivazione?

Il corretto sfruttamento dello spazio architettonico tramite le strutture. Ma, in particolare, per quanto riguarda la moschea, grande importanza hanno avuto i pilastri bianchi, costituiti da un materiale mai usato prima, ovvero cemento bianco, pietrisco bianco, marmo di Carrara bianco, che hanno dati risultati eccellenti, perché risultano come se fossero di marmo modellato, una struttura portante di cemento armato, quindi estremamente resistente.

Questi pilastri richiamano il capitello, dando inoltre l'idea delle mani alzate in preghiera, come la consuetudine islamica impone, oppure del bosco di palme o di pini, pietrificato. Essi compaiono in sei dimensioni all'interno del centro islamico.

Le strutture sono importanti a tal punto, che a differenza delle altre moschee, non verranno ricoperte da mosaici. L'armatura zincata, impedirà che il ferro si deteriori e che possa nuocere in qualche maniera al bianco dei pilastri. Inoltre sebbene a Roma non sia prescritto, poiché io sono un uomo del sud e so cosa significa un terremoto, la moschea è stata costruita con il rispetto delle norme antisismiche per evitare che magari in un futuro lontano vi siano problemi con i nuovi assetti geologici del pianeta. Comunque noi abbiamo espresso con l'architettura il simbolismo islamico.

Quanto peso ha l'apporto dell'elettronica e del computer sul suo lavoro?

Considero l'elettronica e la meccanica di qualche valore solo nella realizzazione di edifici di secondaria importanza. Per esempio, la costruzione dell'aeroporto di Khartoum in Sudan fu realizzato da me e dai miei collaboratori. La progettazione di una cinquantina circa di edifici secondari fu affidata a dei calcolatori. Il mio lavoro è di tipo artigianale, io non uso il computer.

In fase di creazione il computer è dannoso, può essere comodo solo in fase di copia e di divulgazione dell'opera. Una volta, partecipando ad una mostra dove erano presenti lavori di circa 150 artisti e progettisti di tutto il mondo alla Columbia university, tra decine di opere colossali, quella che suscitò maggiore interesse fu la mia chiesetta da niente di Caposele, costata solo sette miliardi. La motivazione fu che la mia chiesa aveva un anima, assente in tutte le altre opere. Questo è stato interamente dovuto a un modulo di lavoro "artigianale".

Roma è l'unica città al mondo, che può vantare San Pietro, roccaforte del cattolicesimo, una sinagoga ed ora la moschea. Cosa si prova ad essere uno dei fautori principali di questo modello di tolleranza?

E' una grande emozione aver partecipato alla realizzazione di quest'opera, perché so che è destinata ad avere molta importanza nella vita sociale, storica e politica mondiale e dunque in quella romana ed italiana. Sono lieto d'aver potuto dare un aiuto a mostrare al mondo, in tempi tanto difficili di contrapposizione dell'occidente cristiano all'oriente islamico, la tolleranza degli italiani

Lei non teme di essere ricordato solo per la moschea, quasi che le altre sue opere venissero dimenticate?

Penso che verrò ricordato per tutte le mie opere. Per esempio a Salerno, nella mia città, ho costruito tre chiese molto importanti a livello mondiale. E quindi almeno lì spero di essere ricordato per quelle realizzazioni. O almeno l'arcivescovo mi ricorderà...

Ha mai avuto il timore di non riuscire a portare a termine un suo lavoro?

No, io sono stato abituato alla scuola della vita difficile.

L'esercizio della professione, di solito, non è tutto rose e fiori, visto che s'incontrano difficoltà senza fine. Se non ci fossero difficoltà, forse, non ci prenderei gusto; altrimenti lo potrebbero fare tutti. Come dicono a Napoli: "il difficile è uscire dal fuoco...". Le cose vanno impostate con grande sacrificio, esperienza, onestà morale e professionale, dedizione.

Quando lei studiava all'università pensava di raggiungere tutto quello che ha raggiunto?

Io mi dedicavo con religiosità allo studio, il resto è venuto dopo. Mi ricordo che una volta mentre stavo facendo colazione in un baretto a via Mezzocannone insieme al grande professor Galli di scienza delle costruzioni, gli domandai perché gli amici che incontravo durante le vacanze di Natale a Salerno, i quali erano andati a studiare a Milano o a Torino, avevano molte più nozioni di quante ne avessi io ed avevano molti più metodi di risoluzione pratica dei problemi. Magari tramite formule conosciute molto più a fondo di quanto avessi studiato io e facendomi fare così una brutta figura, seppure studiassi sempre ed andassi molto bene. Lui mi disse: "Vittò non ti preoccupare, sono due scuole diverse, pensa alla professione come alla tua scrivania. Quanti cassetti ha la tua scrivania?" "Otto" - risposi -"Ebbene" - disse - "quelle scuole ti danno la possibilità di aprire uno o due cassetti con una chiave d'oro, mentre noi ti diamo una chiave d'argento con la quale potrai aprire tutti gli otto cassetti". E’ stato sacrosanto.

Quanto ha contato la famiglia nel suo lavoro?

Sono testimoni delle mie tensioni, forse vittime della dedizione al lavoro, ma credo che d'altra parte siano felici di avere un uomo che crea opere di grande qualità. Questa è la mia personalità, e non penso di potervi rinunciare.

Qual è il suo rapporto con Dio?

Dio è il culmine dell'uomo, vedendolo, immaginandolo, considerandolo presente come il significato dell'eternità.

Io aspiro all'eternità dello spirito con la realizzazione di opere che contribuiscano a delineare il significato dell'eternità, tramite la trasmissione verso il futuro, verso l'infinito. Io desidero partecipare alla rappresentazione divina mediante le opere che esprimano un senso religioso, mistico e spirituale della vita.

Una cultura cattolica così profonda è stata un limite per la realizzazione della moschea?

Al contrario, è un'esaltazione, perché questa ricerca del divino, dell'infinito ed il poter accorgersi come in altre religioni questa ricerca venga sentita, è una grande scoperta ed un grande progresso della mia convinzione sul significato della divinità. Io sono stato quasi illuminato da questa esperienza.

L'irruzione dell'eternità nella materia; il suo costruire opere "che rimangano", non la fa sentire come una specie di demiurgo?

No. La mia forza, il mio temperamento è la modestia. Noi siamo "cose da nulla".

In fase di progettazione lei si sente più un creatore o un modellatore della materia?

Ambedue le azioni sono necessarie. La creazione perché è l'intuizione dell’attimo Quand'ero giovane mi domandavo in che momento si crea un'opera. Oggi so che a tavolino non si creerà mai un'opera; la si crea nei momenti più impensati. L'idea di cosa fare a Greccio mi è venuta in macchina, per esempio.

Che cosa si augura per il futuro dell'architettura?

Io sono ottimista per l'evoluzione delle cose e del mondo.

Ritengo che l'uomo sia sempre logico ed intelligente, e che, dunque, possa trovare la strada giusta tra la costruzione del futuro e la distruzione del passato, magari applicando nuove tecnologie che lo portino alla giusta concezione ed al corretto sfruttamento dello spazio e delle risorse.

Che cosa ha visto nella sua vita che l'ha emozionata di più?

L'uomo non deve perdere di vedere l'Africa, la Norvegia, ma principalmente la valle del Tigri e dell'Eufrate. In questa valle c’è il minareto di Samarra, che è il minareto elicoidale di una moschea in rovina dell'ottocento circa dopo Cristo; è uno sconvolgente anelito verso Dio. Ma al di là dell'architettura, una traccia importantissima nella mia vita è stata lasciata mentre lavoravo in Palestina. Avevo sempre cercato di capire dove fossero stati scritti i testi sacri della nostra Bibbia ed una mattina, accompagnato a Petra da Amman su un auto di re Hussein insieme a Paolo Portoghesi e Christian Norberg-Schulz , mentre stavamo attraversando il deserto su una strada carovaniera chiesi all'autista di fermare la Mercedes per poter vedere le dune da vicino. Poco lontano c'era un uomo dall'aspetto assai povero, con tre capre, accoccolato su una bacinella di latta.

Lì per lì, rimasi un po' contrariato, "ma come" - mi dissi - "mi fermo nel deserto e vedo uno che fa i suoi bisogni", dopo un po' mi resi conto che l'uomo si stava lavando i genitali e solo dopo aver terminato l'abluzione, si inchinò verso la mecca e si mise a pregare.

Allora capii: l'uomo non aveva scritto la Bibbia in nessuna sorta di architettura, in nessun tempio. L'uomo aveva scritto la Bibbia nel vuoto più assoluto, dove nulla ti può distrarre. Dove si può ancora una volta ascoltare il silenzio.

Marco Spagnoli

http://www.unisa.it/max/salerno/f3.asp

http://www.unisa.it/max/salerno/e7.asp