Index Attualità - Novembre 1997


1816, la zattera degli "albanesi"

In un dipinto ora al Louvre la storia del naufragio della fregata francese Medusa sembra ricalcare fedelmente quello che sta succedendo ora sulle coste adriatiche. Dove gommoni carichi di disperati albanesi vanno incontro a una sorte a volte tragica

Il dipinto "La zattera della Medusa" (1818-1819) di Théodore Géricault ora al Louvre di Parigi racconta un episodio di cronaca accaduto nel 1816: la fregata francese "Medusa", dopo un ammutina-
mento e diversi tentativi per tenerla a galla, naufraga nell’oceano, al largo della costa africana. I naufraghi si precipitano sulle scialuppe, ma queste non sono sufficienti e, così, 149 di essi vengono stipati su di una zatterona di fortuna al traino dei barconi. Nella crisi di una tempesta, però, chi governa le scialuppe ordina di tagliare le gomene che rimorchiano la zattera le persone che vi si trovano muoiono, uno dopo l’altro, nei 15 giorni di terribili sofferenze passati sopra la rudimentale imbarcazione in balìa delle onde, prima del recupero dei quattordici superstiti da parte della nave "Argo": sulla zattera si è consumato, non solo il dramma di un incidente ma, secondo la testimonianza dei sopravvissuti, una tragedia umana.

E’ una rappresentazione romantica che si avvale anche di motivi espressivi classici e in cui l’intuizione dell’artista, attraverso la narrazione concitata dell’evento, piena di contrasti (disperazione - speranza, vita - morte, luce - ombra) riesce a trasmettere un significato che va ben al di là del fatto di cronaca: come se, nel microcosmo della zattera si rivelasse tutto intera la realtà della natura umana.

"I GOMMONI ALBANESI"

Difficile non vedere nelle foto delle pagine dei giornali di questi giorni, che narrano con ricchezza di dettagli la vicenda dei gommoni albanesi naufragati al largo dell’Italia, la sconcertante somiglianza dei particolari con la vicenda del naufragio della "Medusa": la pietà e il dolore dei parenti che cercano di trattenere a bordo, o legati all’imbarcazione, i corpi ormai senza vita dei congiunti; la priorità assoluta e violenta dell’istinto di sopravvivenza; la sopraffazione sui più deboli; la speranza tradita nell’avvistamento di navi che però non si fermano a soccorrere.

Il realismo di Géricault induce il pittore a rappresentare "la disfatta dell’ideale, l’inutilità e la negatività della storia, l’ostilità tra l’uomo e la natura, l’incombere della morte negli atti della vita" (Argan). Ma l’arte che rappresenta tale contraddittorietà delle passioni dell’uomo è, come dice ancora Argan, "rifiuto morale della concezione classico-cristiana dell’arte come catarsi". L’arte, dunque, non deve fare molti sforzi di immaginazione per rappresentare certi orrori insiti nella natura umana. Arte è, talvolta, vita. Forse anche i naufraghi della "Medusa" avevano raccontato ai soccorritori che , alla fine, li avevano tratti in salvo: "C’erano anche i pescecani, li abbiamo visti, erano a pochi metri da noi".

Sull’immagine di oggi non c’è più nemmeno la grama consolazione di un’intermediazione estetica e non viene concessa la piccola via di fuga di un dubbio, più psicologico che reale: sarà stato proprio così o si tratta, magari, di un’enfasi nella fantasia di un pittore ?

G.G.