Il
lavoro? Una scuola continua
Qual
è il ruolo della scuola in particolare e
delleducazione più in generale alla fine del
ventesimo secolo? E vero che "chi sa di
più" trova un posto di lavoro maggiormente
qualificato? Quanto può incidere la formazione sulle
capacità di aggiornamento del lavoratore? E il
know-how la cosiddetta "strada maestra" per
sconfiggere la disoccupazione e comunque per limitarne i
dannosi effetti? Questi sono alcuni interrogativi cui
abbiamo cercato di dare risposta grazie allaiuto di
alcuni noti economisti (ed ex ministri) italiani come
Barucci, Tremonti e Giugni
Nel libro "La fine
del lavoro nellera del post-mercato"(Baldini&Castoldi,
pagg.519, lire 38.000), leconomista americano
Jeremy Rifkin insiste sulla necessità di ripensare
interamente la struttura del sistema del lavoro per
lintero pianeta.
A pochi anni dalla fine
del secolo, infatti, se da un lato le
"macchine mangia posti di lavoro" sembrano
essere arrivate a sottrarre al controllo delluomo
realtà lavorative che fino a ieri apparivano
"sicure" (un esempio eclatante in tal senso
sono alcune fattorie californiane interamente gestite da
un computer), dallaltro loccidente sembra non
riuscire a produrre personale sufficientemente
"qualificato" per le esigenze del mercato.
Linternazionalizzazione del lavoro e la
spregiudicatezza delle grandi holding finanziarie
hanno messo in seria difficoltà i lavoratori di tutto il
mondo.
La disoccupazione, poi, è
arrivata ad essere il problema principale per milioni di
giovani in cerca del primo impiego e per altri milioni di
persone che il posto di lavoro lhanno perso a causa
delle macchine e della recessione.
Qual è la ricetta che
Rifkin propone per arrivare a sconfiggere la
disoccupazione nel medio e lungo periodo? Sebbene non
esistano formule magiche, oltre ad insistere su strumenti
macroeconomici quali "settimana corta" e
"riduzioni proporzionali del salario"
lautore del libro suggerisce una maggiore
attenzione ai problemi della scuola, ed un investimento
maggiore sulla formazione culturale dei lavoratori.
Partendo, infatti, dalla
considerazione che il ventisei per cento delle persone
impiegate negli Stati Uniti non è in grado di scrivere
una lettera al fornitore della sua carta di credito per
il controllo dellestratto conto, Rifkin sottolinea
come i lavoratori debbano avere la capacità di diventare
"imprenditori di se stessi", sfruttando al
massimo le proprie conoscenze ed esperienze lavorative e
le proprie capacità di adattamento.
Non è, però, solo la
voce di Rifkin a suggerire maggiore attenzione verso la
scuola in particolare e la formazione più in generale
per intensificare la lotta alla disoccupazione: il
recente "rapporto Delors" in Europa ed il
documento finale del G7 di Houston del 1994 sono solo
alcuni atti pubblici che dimostrano la presa di coscienza
dei principali paesi industrializzati riguardo le
specifiche possibilità di scuole ed università nei
confronti dei problemi del lavoro.
Scrive a tal proposito
John Kenneth Galbraith: "Qualunque analisi sulla
competività delleconomia americana pone
laccento sulla necessità di una forza lavoro
adeguatamente istruita e altamente qualificata. A
ulteriore conferma di ciò, a proposito delle spese per
listruzione si parla di investimento
umano. Scopo di ogni investimento è trarne un
profitto; listruzione diventa così un aspetto,
anzi una componente fondamentale, della politica
economica." Così, il celebre economista
americano nel suo ultimo libro "La buona
società" (Rizzoli pagg.157 - lire 24.000), dedicato
al ripensamento del Welfare State nel Duemila,
inizia il capitolo intitolato in maniera assai
significativa: "Il ruolo decisivo
dellistruzione".
La scuola insomma, viene
chiamata in causa come responsabile principale della
formazione professionale degli studenti. Per Siro
Lombardini, docente di Economia Politica
allUniversità di Torino "La qualificazione
del lavoro e la ricerca, ovvero i due fattori da cui oggi
dipende il progresso tecnico e quindi il tasso economico
di crescita sono entrambi determinati dalla scuola. Un
paese che abbia una scuola efficiente che formi
lavoratori flessibili e adattabili alle diverse esigenze
del mondo del lavoro si ritrova con un enorme patrimonio
professionale e culturale. La scuola è una delle
principali risorse di una nazione e mentre una scuola
"povera" di contenuti e scarsamente formativa
mette in condizioni difficili uno stato, una
"buona" scuola che ponga solide basi per la
ricerca, costituisce un fattore primario di
sviluppo". Fondamentale è il rapporto tra
ricerca e nuove strategie economiche: "Per
sconfiggere la disoccupazione cè una sola
soluzione nel lungo periodo ed è quella di ridurre
lorario di lavoro. Per fare questo è, però,
necessario un progresso tecnico che può essere
determinato solo dalla ricerca. Risulta chiaro che la
strategia vera per realizzare tutto ciò è quella di
raddoppiare la produttività, dimezzando le ore di lavoro
senza ridurre il salario o almeno riducendolo in maniera
limitata. Una scuola che possa raggiungere risultati del
genere sarebbe dunque non solo un pilastro per salvare
leconomia degli stati, ma anche per salvaguardarne
le istituzioni democratiche, visto che solo delle persone
critiche e flessibili possono affacciarsi con una certa
dose di sicurezza sul mondo del lavoro del prossimo
secolo".
Assai caustico è, invece,
il giudizio sulla situazione italiana da parte di Antonio
Martino, docente di Economia Politica presso
lUniversità Luiss di Roma ed ex ministro degli
Esteri: "Purtroppo nella scuola italiana sono
presenti delle incongruenze che rendono molto difficile
realizzare programmi e percorsi culturali efficaci nel
breve e lungo periodo. Innanzitutto, il modello che
Einaudi chiamava "centralistico e napoleonico"
, valido per tutti, è assolutamente inaccettabile. Le
esigenze degli studenti e del mondo del lavoro mutano con
tale celerità da non poter far ritenere che
ladeguamento della formazione alle necessità del
momento dipendano dalle decisioni del ministro della
Pubblica istruzione , dal suo ministero e da una
maggioranza più o meno stabile in Parlamento. Inoltre
fino ad oggi è stata sempre privilegiata
listruzione classica, anche per ottimi motivi è
vero, dato che questo modello di studi insegna a
disprezzare quei soldi che non consente di guadagnare.
Tutti i tipi di lavoro, però, hanno la stessa dignità e
richiedono basi di studi che debbono venire differenziate
senza riguardo a questo oppure a questaltro tipo di
istruzione. E chiaro che non esistono verità
assolute nel mondo della scuola e della formazione, però
è anche altrettanto vero che solo la libera concorrenza
tra scuole e tra forme di insegnamento può portare alla
formazione di individui culturalmente flessibili e capaci
di adattamento alle esigenze del mercato".
Parte da un misto di
scetticismo e di severe considerazioni riguardo le reali
possibilità dei sistemi educazionali, la proposta
provocatoria di Giulio Tremonti, docente di
Diritto Tributario allUniversità di Pavia ed ex
ministro delle Finanze per "velocizzare" i
tempi dellaccesso alla formazione: La struttura
della ricchezza è cambiata: la ricchezza gira nel mondo
liberandosi dai vincoli nazionali, cercando la manodopera
ad un costo più basso. Ciò significa che le masse
lavoratrici occidentali si trovano strette in una morsa.
Da un lato gli stipendi si livellano verso il basso a
causa tra laltro anche delle macchine
"rubalavoro", dallaltro i costi del
lavoro sono occidentali e quindi bisogna lottare con i
bassi costi della manodopera di Sud America, del Lontano
Oriente e, soprattutto, dellEst Europeo.
LOccidente, che non può competere con il resto del
mondo dal punto di vista della forza lavoro, può, però,
essere concorrenziale sul piano del capitale umano,
grazie ad oculati interventi sulla formazione e
sullinformazione. Fondamentale per gli stati è sì
investire nella scuola, ma altrettanto importante è
investire nella televisione pubblica: il servizio
pubblico, infatti, non deve occuparsi di varietà o di
spettacoli di intrattenimento, ma deve fare cultura. Se i
figli dei ricchi, per esempio, studiano le lingue
viaggiando, quelli che non possono permettersi di
viaggiare devono potere imparare le lingue dal tandem
costituito da scuola e televisione. Eassurdo che
gli stati non sfruttino in pieno per fini di pubblica
utilità la televisione che è lo strumento formativo
più potente che esista. Io trovo, poi, necessario che
superato lhandicap della lingua i nostri giovani
che si affacciano al mondo del lavoro, abbiano una
disposizione intellettuale ed unattitudine
spirituale migliore per potere diventare
"competitivi" sul mercato.
Scettico è, invece, Piero
Barucci, docente di Storia delle teorie economiche
allUniversità di Firenze ed ex ministro del Tesoro
sulla possibilità di formazione con programmi
educazionali che non vengano adeguati in tempi rapidi:
"Sarebbe ideale, nonché auspicabile trovare un
giusto bilanciamento per i programmi scolastici tra le
istanze solidaristiche della democrazia e le esigenze del
mercato. Questo, però, è assai difficile da realizzare.
Credo che il modello di una scuola flessibile, ovvero con
una preparazione ridotta ad un numero preciso di materie
cardine che sia comune a tutti gli ordini di studi e con
una grande gamma di possibilità di specializzazione,
possa costituire una buona alternativa ad un modello
sbilanciato in questo oppure in quellaltro senso.
Nella scuola italiana, oggi, si insegnano troppe cose in
maniera spesso non adeguata. Distinguendo tra una buona
conoscenza di base e una formazione di tipo più
specialistico credo che bisognerebbe formare i giovani
con una serie di nozioni che vadano dalla storia
allinformatica e solo in seguito metterli di fronte
ad una scelta di questa o piuttosto di quella
specializzazione. Alcune esperienze di questi anni hanno
dimostrato, infatti, che un eccesso di qualificazione
può essere addirittura nocivo al curriculum
professionale di un lavoratore ed anche oggi non
cè nessuno al mondo che possa dire con esattezza
quali saranno tra ventanni le esigenze del
Mercato". Continua poi Barucci:
"Il lavoratore di questi anni deve essere disposto a
cambiare spesso lavoro e deve essere preparato
allidea che non è il titolo di studio (diploma o
laurea che sia) a permettergli di trovare un impiego
adeguato, bensì le sue capacità di adattabilità, le
sue caratteristiche professionali e le sue esperienze
lavorative. In tal senso, dunque, non è importante chi
sia a formare in maniera continua il lavoratore dopo che
questo esce dal mondo della scuola, ma che egli sia
capace di raggiungere quel grado di flessibilità tale da
permettergli di porsi in maniera agile e concorrenziale
nel mercato del lavoro.
Il professore Mario
Baldassarri, docente di Economia politica, presso
lUniversità "La Sapienza" esprime un
dubbio che può essere sciolto solo da un rinnovamento
totale del sistema formativo: "Il problema vero,
oggi, è quale binomio scuola-occupazione è ipotizzabile
per gli anni a venire. Due fatti nuovi hanno, infatti,
modificato il rapporto formazione/occupazione.
Innanzitutto non basta più conseguire un diploma per
trovare un lavoro che rimanga, poi, lo stesso per tutta
la vita: la formazione e laggiornamento
professionale oggi devono essere fattori permanenti nella
vita lavorativa delle persone, che per cambiare quattro o
cinque lavori devono avere una preparazione adeguata.
Inoltre dal confronto dellesperienza americana con
quella europea risulta necessario collegare una buona
cultura di base fornita dalla scuola ad una
specializzazione altrettanto efficiente. Bisogna, dunque,
che si formi questunione di una duttilità e di una
flessibilità intellettuale maturata fino ai
diciottanni grazie agli studi di base con una
qualificazione ricevuta in seguito con studi successivi o
magari sui posti di lavoro. Non bisogna, infatti,
commettere lerrore della scuola americana che
selezionando soltanto i migliori, ha abbandonato ad una
cultura "bassa" la maggior parte dei suoi
cittadini e lavoratori. Oggi negli Stati Uniti si sono
resi conto dellerrore compiuto. Così come dieci
rondini non fanno primavera, uneconomia sana ha
bisogno necessariamente di una cultura
"diffusa" e distesa in maniera omogenea tra
tutti i lavoratori". E se gli studenti sono i
principali protagonisti di queste innovazioni, anche il
personale docente non può assolutamente venire escluso
da questo nuovo sistema di formazione: "La scuola
italiana che finora non ha puntato a risultati davvero
concreti per uniformarsi a questa linea di pensiero deve
stabilire un programma che leghi per primi docenti e non
docenti alla formazione continua.
Quali sono allora i corsi
di formazione che devono essere istituiti ? Dice Renato
Brunetta, docente di Economia del lavoro alla II
Università di Roma: "I nostri occupati hanno un
terzo di educazione in meno rispetto gli altri paesi
europei, da ciò deriva chiaramente la necessità di
innalzare lobbligo scolastico fino ai diciotto anni
e di puntare ad un aumento della qualità
dellinsegnamento. Personalmente sono contrario a
corsi di formazione ben delineati, perché non credo che
sin da oggi si possano conoscere le esigenze future di un
paese. Facciamo un esempio: per avviare un corso di studi
sui Beni culturali e portarlo a compimento ci vogliono
almeno ventanni. Non è detto, però, che tra
ventanni la domanda di personale formato
nellambito dei Beni culturali sia la stessa di
oggi. Importanti sono, dunque, le nuove regole che
obblighino la scuola a stare in sintonia e a dialogare
con il mondo del lavoro. Dare e ricevere segnali,
adattando con piccoli aggiustamenti i propri percorsi
formativi mi sembra il juste milieu per arrivare a quel
tipo di compromesso che se da un lato non espone la
scuola ad errori macroscopici, dallaltro obbliga il
mercato alla giusta attenzione verso il mondo della
scuola. Più che un lavoratore flessibile credo sia
giusto auspicare un individuo flessibile, culturalmente
attrezzato e capace di costruirsi una propria formazione
che lo renda in grado di orientarsi attivamente per la
ricerca del lavoro e, perché no, anche nella vita più
in generale. Va detto, però, che se bisogna richiedere
flessibilità al lavoratore, la stessa duttilità va
chiesta anche al sistema delle imprese, che pretende di
reclutare lavoratori con determinate caratteristiche che
poi, però, non sa sfruttare e che, magari, vengono
sottoutilizzate. Le regole ed il cambiamento devono
essere necessariamente a trecentosessanta gradi,
altrimenti il caricare daspettative solo il mondo
della scuola senza produrre altri cambiamenti si
rivelerà davvero inutile".
Più in là si spinge Alberto
Quadrio Curzio, preside della facoltà di Scienze
politiche dellUniversità Cattolica di Milano e
presidente della Società italiana degli economisti:
"La formazione è essenziale per ridurre i
livelli di disoccupazione in quanto la conoscenza è il
principale "fattore di produzione" dei nostri
giorni. In tal senso i curricula formativi del
nostro paese vanno rivisti ed aggiornati alla luce del
nuovo rapporto tra Mercato e mondo del lavoro in modo
tale da favorire nel medio e lungo periodo un benefico
effetto sulloccupazione. Oggi si ha
limpressione che una serie di attività lavorative
vengano svolte con un grado di conoscenza non adeguato.
E per questo che bisogna evitare che i curricula
professionali vengano adeguati ad una
"professionalizzazione rapida" che non sia
seguita da un periodo di continuo aggiornamento
professionale.
Io credo che una più
stretta collaborazione tra la scuola e gli ordini
professionali favorirebbe in maniera positiva il
rinnovamento dei programmi senza che i contenuti di
questi venissero subordinati agli interessi di questa
oppure di quella categoria.
Ma a chi, dunque, affidare
il compito di questa formazione "neutra"
partecipe sia della cultura imprenditoriale che di quella
democratica e formativa ? Continua Quadrio Curzio:
"Bisognerebbe affidare il compito di formare ed
aggiornare il lavoratore dopo il conseguimento del
diploma o della laurea a delle fondazioni. Queste
fondazioni, nate dal crogiuolo di varie forze sociali
(scuola, sindacati, camere di commercio) sgraverebbero lo
Stato già troppo carico anche di questa responsabilità
e favorirebbero, invece, una sorta di regionalizzazione
del problema lavorativo, mettendo a diretto contatto i
lavoratori con le esigenze del territorio in cui abitano.
Le fondazioni, come avviene allestero, avrebbero
anche il pregio di porsi come "enti terzi"
rispetto allo stato ed al mondo imprenditoriale evitando
al docente di fare limprenditore ed
allimprenditore di fare il docente. Non sono
favorevole ad un tipo di istruzione troppo specialistica.
La specializzazione, infatti, va moderata ed usata in
maniera funzionale rispetto al corso di studi scelto.
Conclude questa panoramica
di pareri Gino Giugni, docente di Diritto del
lavoro presso lUniversità di Roma "La
Sapienza" ed ex ministro del Lavoro : Il
principio della scuola come "strada maestra"
per la lotta alla disoccupazione è valido, come è stato
sottolineato dallultimo rapporto Delors su crescita
ed occupazione. Che sia applicabile in Italia è, però,
tutto da vedersi, perché qui è il sistema che va
cambiato. Il problema del rapporto tra formazione ed
occupazione va affrontato fin dalla prima elementare,
operando non solo una politica di formazione, ma anche
una politica di educazione lungo tutto larco della
vita del lavoratore, perché non è più pensabile di
svolgere ununica professione per tutta la vita. Dice
ancora colui che è stato definito come il "Padre
dello statuto dei lavoratori": La formazione
monoprofessionale non regge allimpatto del
cambiamento ed alle pressanti esigenze del mondo del
lavoro e quindi una formazione flessibile deve
costituire il dato costante, altrimenti rischiamo una
stasi occupazionale dovuta al cambiamento stesso. Io
credo che il mondo della scuola debba cambiare percorsi
ed itinerari formativi solo in seguito ad una grande
opera di monitoraggio del proprio lavoro. Trovo
necessario che a cadenze periodiche si compia un analisi
della qualità di know-how che la scuola imprime nelle
conoscenze professionali del singolo studente e che si
verifichi se queste conoscenze possano essere valide
così come sono oppure vadano modificate per aprire a
nuovi modelli professionali e culturali. Bisogna, cioè,
imparare ad apprendere. Nellinserimento e
nellistituzione di nuovi modelli professionali,
però, vorrei si facesse attenzione ad alcuni aspetti
davvero importanti: sarebbe disastroso, infatti, se la
scuola insegnasse il valore della
"competitività" tra gli studenti. La scuola è
un luogo di socializzazione e di educazione civica
allinterno del quale deve prevalere il modello
della solidarietà e non quello della competitività.
E come Quadrio Curzio,
anche Giugni insiste sulla necessità di affidare a
entità neutre e non completamente dipendenti dallo Stato
i nuovi corsi di formazione professionale: "Penso
che per essere efficace questo tipo di formazione
professionale non possa venire affidato in toto alle
imprese. Proprio per la sua caratteristica composita di
fase di apprendimento e fase di formazione va affidata ad
un intervento pubblico differenziato su vasta scala,
combinato con lapporto logistico delle singole
aziende".
m.s.
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