Lo
sviluppo dellidentità
4^ puntata
Dopo
aver visto cosa si intende per sviluppo
dellidentità (ottobre), le influenze che hanno su
di essa il Vero Sé e il Falso Sé (novembre), abbiamo
esaminato il legami tra questo faticoso cammino e due
parametri fondamentali della nostra vita: il tempo e lo
spazio (dicembre). Ora cercheremo di tratteggiare una
strategia di fondo per aiutarci in questo difficile
cammino
Dal "fare"
all'elaborare.
Un aspetto sintomatico di
questa fase storica lo si può rilevare allinterno
dellapparente contraddizione di una società che
fa della libertà individuale un valore dichiarato
e contemporaneamente pone pesanti limitazioni alla
necessità che l'uomo ha di produrre una sua elaborazione
personale delle cose e del senso della sua vita. Da un
lato si mostra all'uomo la possibilità della libertà e
contemporaneamente gli offre l'omologazione del pensiero
e del sentire come soluzione all'ansia della ricerca che,
prima che collettiva, è necessariamente individuale. In
questo senso parlavo di apparente contraddizione, perché
nei fatti le due spinte colludono comunque al non
cambiamento.
Appare invece necessario
riscoprire il valore e gli spazi della personale
rielaborazione che è prima di tutto dialogo con sé
stessi, confronto con gli altri e ripensamento delle
personali strategie nellaffrontare la realtà.
Imboccare questa via
sembra rappresentare la più autentica possibilità per
costituire un valido ed efficace strumento per la
prevenzione del disagio psicologico e per la costruzione
di un rapporto interumano autenticamente tollerante: chi
ha la possibilità di capirsi può modificarsi, chi tocca
con mano le proprie difficoltà e impara a non
vergognarsene diviene più facilmente tollerante anche
verso quelle degli altri
Per esemplificare al
meglio questo punto mi voglio riferire ad un'esperienza
formativa condotta in questi anni a favore di personale
addetto allassistenza, ma che può essere
tranquillamente tradotta anche per i problemi che vivono
i genitori verso i figli, le coppie nelle loro relazioni
interpersonali e via dicendo.
In campo assistenziale,
l'operatore, a qualsiasi livello lo vogliamo considerare,
è troppo spesso lasciato completamente allo scoperto per
quel che riguarda la gestione delle sue relazioni
interpersonali con il paziente, con i parenti del
paziente, con i colleghi di lavoro. Ad aggravare la sua
posizione cè la spinta ad un male inteso
volontarismo, secondo il quale l'operatore, per il fatto
stesso di svolgere un lavoro assistenziale,
"deve" avere un buon rapporto con il suo
assistito; se poi non ci riesce, se poi questo gli
comporta una serie di problemi personali, non gli resta
che sbrogliarsela da solo (Zuliani).
Di fronte a questa
situazione che di fatto nega o banalizza la complessità
e la difficoltà delle relazioni interpersonali,
l'operatore è coinvolto da una parte in sentimenti di
insoddisfazione e di frustrazione per il suo ruolo
professionale e, dall'altra, nel timore per lo spessore
di un coinvolgimento emotivo che sente, ma di cui non
coglie le reali dimensioni.
Nella misura in cui questa
situazione relazionale diviene soggettivamente
intollerabile l'operatore erige delle difese che lo
spingono a chiedere sempre più accentuate rassicurazioni
tecniche. Ecco allora che importanti evoluzioni
scientifiche, come la capacità di compiere diagnosi
sempre più selettive o di progettare operatività sempre
più raffinate, rischiano di essere utilizzate per
separare il "malato" dalla sua
"malattia", per poter rivolgere l'attenzione a
quest'ultima molto più rassicurante e meno coinvolgente
(Zuliani).
Ma come ci ha ben
insegnato Balint le relazioni interpersonali sono
inscindibili dall'aspetto tecnico: le relazioni
interpersonali sono un po' la trama di una stoffa su cui
si può proficuamente intessere l'ordito delle conoscenze
tecniche e scientifiche, l'uno senza l'altra dà dei
risultati informi.
In questo senso il rimedio
più efficace per quello che possiamo definire il
burn-out degli operatori sta in una autentica attività
formativa che deve essere indirizzata a mettere in luce e
a riconoscere quegli aspetti relazionali che intervengono
nei rapporti con i pazienti e con i loro familiari.
Questo è possibile
solamente attraverso il metodo della discussione e della
condivisione delle problematiche personali, di quegli
interrogativi che risuonano all'interno di ognuno, ma che
il singolo non si sente abilitato a condividere con gli
altri.
Gli operatori possono
così constatare come, al di là delle qualifiche
professionali e dei titoli di studio che li
differenziano, provino analoghe emozioni, paure, gelosie,
nutrano gli stessi dubbi e perplessità di fronte alle
evenienze professionali che ogni giorno intervengono nel
loro rapporto con gli assistiti, con i loro familiari,
fino con i colleghi di lavoro.
La comprensione delle
dinamiche relazionali che ne scaturisce diviene un
importante spunto per verificare e modificare il
coinvolgimento emotivo dell'operatore nella sua relazione
lavorativa, per consentirgli di elaborare più corrette
distanze emozionali dai conflitti presenti, per favorire
la ricerca di soluzioni più adeguate per una loro
positiva risoluzione.
Non si tratta di una via
facile, certamente è una via che non richiede
"edificazioni", né tanto meno l'organizzazione
di strutture, ma prevede la possibilità e la
disponibilità di un luogo e di un tempo per il confronto
e l'elaborazione.
Non è una via facile
perché non tollera mascheramenti proposti da un facile
"fare", ma chiede le doti fondamentali della
pazienza per i tempi individuali e la tolleranza, che è
condivisione, delle difficoltà di ognuno.
Questa appare anche la via
maestra per il superamento di quello che oggi appare come
il neo-individualismo che si esplicita in un culto
dell'istante, del qui ed ora in cui non c'è autentico
spazio per le relazioni con gli altri.
Questa tendenza trova la
sua più evidente espressione nel narcisismo che ha come
conseguenza sia la mancanza di pietas verso il passato,
sia l'afflosciarsi di ogni tensione verso il futuro che
sia altro dall'oggi o da un ripetersi ossessivo di tanti
"oggi".
In fondo il limite di
Narciso non è stato quello nella conoscenza de sé
(nell'essersi visto bello), ma nel proprio sottrarsi ad
essa mediante l'autocontemplazione che taglia fuori da
ogni possibilità di fare esperienza. Narciso, infatti,
al contrario di Edipo, non vive e non ha storia.
Le conseguenze
intrapsichiche di quanto detto sopra sono un tentativo di
svalorizzare l'Io nelle sue funzioni di mediatore tra il
Super-Io, l'Es e il mondo esterno.
Un Io debole, minimale,
lungi dall'essere liberato è un Io senza identità. Ed
ecco il paradosso massimo del nuovo individualismo:
l'esplodere dell'esigenza di un'identità omologata a cui
aderire, con un Io che diviene rigido per resistere
all'angoscia di non esserci, come già evidenziato nelle
pagine precedenti.
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