
Strategie di
sconfitta
Nel
malaugurato caso di un secondo Desert Storm contro Saddam
Hussein, il Pentagono dovrà risolvere un dilemma
paradossale: che tipo di guerra fare. Perché
l’aviazione dell’Iraq è inesistente, i
depositi di armi chimiche non si possono bombardare per
non creare fumi letali e i civili proteggono i palazzi
residenziali del dittatore. Catturarlo? Bisognerebbe
occupare militarmente Baghdad con migliaia di soldati.
Con alle spalle lo spettro di un nuovo Vietnam
Impossibile
prevedere cosa succederà: mentre scriviamo tra Usa e
Iraq tira aria dall’odore di polvere da sparo, ma la
speranza è che all’ultimo momento la diplomazia
riesca a fermare un secondo Desert Storm. Non tanto per
amore di Saddam Hussein, ma perché meno ci si spara e
meglio è, a qualsiasi latitudine.
Il problema nasce dal
fatto che l’Iraq è troppo ambiguo sulla possibile
esistenza di armi chimiche e biologiche sul suo
territorio. Come dimostrano i continui stop agli
ispettori Onu con la scusa che sono americani. E gli Usa,
manco a dirlo, si dicono sicuri che quei depositi
proibiti ci sono ancora. Una questione di ripicche e
sfumature che sta però portando vicino all’attacco
militare, previsto dagli osservatori verso metà
febbraio.
Insomma mentre leggete queste righe la
grana-ispezioni potrebbe essersi già risolta
pacificamente. O i cacciabombardieri dell’Us Navy
potrebbero già essere sopra Baghdad. Comunque sia, in
una nota della corrispondente per gli affari militari
della Cnn sono riassunti molto chiaramente i mille dubbi
che assillano il Pentagono in caso di guerra. Molti di
più del primo Desert Storm. E che spiegano anche perché
il segretario di Stato Madeleine Albright abbia tentato
con tanta insistenza di trovare una via d’uscita
diplomatica alla questione.
Le opzioni militari in
caso di attacco (sia che gli Usa agiscano da soli che con
altri partner occidentali) sono a dir poco mediocri. E,
anzi, il rischio maggiore è di vedere gli Stati Uniti
ricadere dentro una situazione tipo Vietnam: cioè un
pantano senza fine dove più si spinge con forza e più
si affonda. Tutte le strategie di attacco segnate sulla
lavagna hanno infatti pesanti controindicazioni. Vediamo
le principali.
Ad esempio l’uso di missili
"cruise" (quelli lanciati dalle portaerei e
capaci di colpire bersagli con grande precisione) o di
raid aerei per eliminare le basi missilistiche irachene
certo ridurrebbero il pericolo per l’aviazione
alleata. Ma c’è veramente questo pericolo? E che
risultato avrebbero questi raid? Quello di non far
sparare qualche razzo a Saddam, ma non certo di
convincerlo alla resa. Così come bombardare o bloccare
gli aerei iracheni sembra del tutto inutile:
l’applicazione in vigore da anni della "no-fly
restriction" sui cieli dell’Iraq ha già messo
ko la forza aerea del dittatore, formata quindi da piloti
poco addestrati. "Per Saddam sarebbero punture di
spillo" spiega Lawrence Korb, osservatore della
Brookings Institution.
Un obbiettivo più sensato
potrebbero essere quei circa 200 depositi sparsi per il
Paese sospettati di contenere armi per la guerra chimica
o biologica. Un bersaglio che tra l’altro sarebbe
direttamente collegato al rifiuto di Saddam Hussein di
far entrare gli ispettori Onu americani. Politicamente
perfetto. Ma questa volta il limite è militare. Anzi
tecnologico: bombardare depositi con sostanze ad alto
rischio è un vero guaio. E il Pentagono lo ha già
detto: non abbiamo bombe che producono abbastanza calore
nell’esplosione da distruggere questi materiali
senza creare fumi tossici se non letali. Insomma una
Chernobyl incontrollabile, con i venti che spargono in
giro per l’Iraq e anche oltreconfine molecole
mortali. E se fumi e polveri finiscono su una città?
Insomma niente da fare
neanche qui. C’è allora una terza opzione per il
Pentagono: indebolire il sostegno e la credibilità di
Saddam bombardando direttamente le forze di sicurezza del
dittatore e le sue truppe più fedeli, la Guardia
Repubblicana. Ma, ammesso che la cosa funzioni, cosa ne
penserebbe l’opinione pubblica mondiale di una
scelta che prevede l’uccisione premeditata di uomini
(anche se soldati) invece che di edifici, basi aeree o
depositi? Brutta storia.
Tentiamone un’altra,
ha suggerito qualche testa-d’uovo-con-stellette
dell’Us Army: distruggiamo i famosi
palazzi-residenze del dittatore. Sempre una lezione è, e
magari lo peschiamo anche mentre è in casa. Peccato che
il leader iracheno abbia già provveduto riempiendo le
sue lussuose dimore con civili a mo’ di scudi umani.
Roba da spaccarsi la
testa. Lo stesso Korb ha commentato che "forse per
la prima volta va riconosciuto a Saddam di aver agito con
ragionevole perspicacia per proteggere i soui
interessi". Visto che anche una quinta possibilità
va scartata: un attacco mirato con obbiettivo
l’uccisione del dittatore. Sono due i problemi,
infatti: le scarsissime possibilità di riuscita e la
legge Usa che vieta l’assassinio su commissione (non
la pena capitale che è la stessa cosa, ma gli americani
su questo proprio non ci sentono). Si potrebbe
organizzare un blitz per catturarlo, ma qui siamo alle
trame da libro di fanta-politica: servirebbero migliaia
di soldati per occupare nientemeno che Baghdad, con
migliaia di civili pronti a scendere in strada. Più che
un pantano, queste sono sabbie mobili.
Così alla fine, secondo
l’analista della Cnn, si torna al punto di partenza:
se un attacco limitato e simbolico non servisse a niente
(come è probabile), il passo successivo sarebbe usare
ancora più forza. Con risultati imprevedibili. Compreso
lo spettro del Vietnam, quella piccola stupida guerra tra
il gigante Usa e il nano asiatico che sarebbe durata
pochi mesi. Solo che non è andata proprio così.
a.m.
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