Cultura - Aprile 1998 | |
La violenza evitabile La "cattiveria" umana è un comportamento inevitabile? È un ingrediente irrinunciabile e naturale, o un semplice prodotto culturale? In che modo scindere violenza culturale e violenza "naturale"? Sono domande a cui nessuno, almeno finora, è riuscito a fornire una risposta risolutiva. Ma visto che spesso certi comportamenti negativi si imparano, qualche speranza cè: insegnare la tolleranza Per chiarire se la violenza nelluomo è inevitabile o meno può essere utile distinguere tra aggressività e violenza. Sicuramente l'aggressività fa parte della natura umana. Sicuramente siamo predatori anche noi, come i felini e i rapaci. Siamo aggressivi sia nei confronti delle altre specie, sia contro i nostri simili. Ma aggressività e violenza non sono sovrapponibili. Senza dubbio la violenza è una caratteristica frequente del comportamento umano, ed è strettamente legata all'aggressività. Tuttavia l'aggressività è solo una predisposizione, un'inclinazione che può anche non sfociare in un gesto violento. Dunque la violenza, pur essendo frequente, non è necessaria. Frequenti anzi sono i casi in cui gli esseri umani vivono una vita intera in perfetta salute ed equilibrio, senza mai usare violenza nei confronti di altre persone. Chi è, dove vive, come si riconosce l'individuo violento. Quale tipo di essere umano commette violenza? Non è rara la tentazione di qualificare come "mostruoso", "inumano" e "bestiale" il gesto violento. Sembra una reazione quasi ovvia, quando sono gesti molto lontani dalle abitudini di chi osserva e giudica. Ma in generale certi comportamenti "bestiali", come ad esempio l'uccisione della propria prole, appartengono solo agli esseri umani e alle scimmie più evolute. Ci sono diverse specie, come i leoni e i gabbiani, che uccidono i cuccioli dei loro simili, e si tratta di un comportamento istintivo solidamente motivato. Ma uccidere i propri figli è un comportamento "tipicamente umano", e non "bestiale". La violenza sembra essere strettamente condizionata a determinate categorie: classe sociale, razza e sesso. Gli atti violenti non sono un privilegio esclusivo di nessuna di queste tipologie umane. Tuttavia, è indubbio che gli atti violenti appartengono in primo luogo ad alcune di esse. Sono le classi più povere e disagiate, le razze che vengono stigmatizzate come "inferiori" e che finiscono in netta maggioranza relegate professioni e ghetti di miseria che brillano per l'abbondanza di comportamenti violenti e asociali. La violenza sembra essere un triste privilegio anche degli individui di sesso maschile. La differenza tra natura e cultura. La classe sociale sembra essere una categoria determinata esclusivamente da parametri culturali. Per quel che riguarda razza e sesso, il discorso è più complicato. Non c'è dubbio infatti che le differenze oggettive e fisiche esistano, sia tra le razze che tra i sessi. Prendiamo ad esempio gli stereotipi razzisti: sicuramente è vero che certi comportamenti sono più frequenti in certe razze e non in altre. Tuttavia questo non dovrebbe portare ad affermare che tutti i negri sono portati per la pallacanestro e la violenza, o che tutti gli italiani sono mafiosi e spaghettoni, o che gli ebrei sono tutti commercianti, psicoanalisti e usurai. Eppure, gli stereotipi sono di gran moda. Non è infrequente sentire donne che qualificano le loro simili come "uomini" solo perché sono particolarmente egoiste, aggressive e competitive. Così come non è infrequente sentire degli uomini, anche molto colti, sostenere che è "femminile" la tendenza all'emozione violenta, o all'astrologia, o ad altri stereotipi ricorrenti. Il problema non è riconoscere l'esistenza della differenza. Il problema è voler creare un legame indissolubile tra quelle che sono le differenze oggettive e fisiologiche tra maschio e femmina e tra razze diverse, e alcuni comportamenti e caratteristiche che sono di fatto predominanti di un sesso e di una razza. Che gli uomini siano di fatto più violenti delle donne, non significa affatto che debbano essere necessariamente più violenti delle donne. Così come non è necessario che una donna debba essere per forza mite e buona e arrendevole per essere definita tale. Alcune donne mussulmane, vantando giustamente i pregi delle loro usanze, hanno sottolineato le caratteristiche salutari dei loro veli coprenti. Sembra quasi un fatto naturale, scontato, il doversi "coprire" e "difendere" dal desiderio e dalla violenza maschile. Come se la violenza fosse una conseguenza logica del desiderio. The Intimate Enemy: Gender Violence and Reproductive Health. La lettura del dossier del Panos Institute sembrerebbe confermare la realtà ultima e inamovibile del desiderio maschile. Purtroppo, i dati riportati sono raccapriccianti. Il rapporto concerne un fenomeno definito "violence gender". Mi è difficile tradurre efficacemente questa espressione. Il termine è stato usato perché concerne la violenza contro la donna attraverso tutti gli stadi del ciclo di vita. Infatti, le forme di violenza esaminati dal dossier del Panos Institute sono specificatamente rivolte contro le donne di tutto il mondo. Questo studio riporta anche le conseguenze della violenza su una sfera particolare della salute femminile: la fertilità e la riproduzione. Si tratta di un lato del problema che finora non era stato considerato. Violenza domestica, stupro, mutilazioni genitali, abuso sui minori: lo studio esamina questi fenomeni, tutte forme di violenza "tipicamente femminili". Nel senso che vengono esercitate sulle donne. Le forme di violenza "specifiche" contro le donne vengono equiparate ad un'epidemia senza confini. Secondo il rapporto Panos di quest'anno, esse costituiscono una causa di morte e di invalidità fondamentale per tutte le donne tra i 15 e i 44 anni. Le violenze risultano più distruttive e mortali del cancro, della malaria, degli incidenti automobilistici, della guerra. Discriminazione pre-natale Queste pagine fitte di dati hanno inoltre il merito di mettere in luce un costume relativamente lontano dal nostro occidente, ma molto diffuso altrove: la discriminazione sessuale pre-natale, ovvero l'eliminazione delle neonate e dei feti femmina. Si tratta di una forma di bio-crimine poco analizzato da chi si occupa di bioetica dalle nostre parti. Eppure, mentre ci si preoccupa delle sorti dei feti surgelati e delle interruzioni di gravidanze indesiderate, nei paesi asiatici è pratica comune uccidere le bambine appena nate, e anche quelle non ancora nate. Non si tratta solo di infanticidio o aborto preventivo. Le bambine e le donne vengono fatte morire anche per deliberata malnutrizione e deliberata privazione di cure mediche. Infatti, appartiene a molte culture l'abitudine consolidata di sottrarre alle donne e alle bambine il cibo e le cure mediche. Nei paesi asiatici nascere femmina è più difficile, e per le bambine a cui è stato concesso il privilegio di nascere, è più difficile sopravvivere. La schiavitù del 2000 Su mille donne, cento vengono comprate e vendute in matrimonio, prostituzione o schiavitù. Ma in questo caso non si tratta di un fenomeno localizzato in angoli di mondo lontani. La schiavitù delle donne è approdata anche nella civilissima Europa. Le organizzazioni criminali sono riuscite ad importare le donne dai paesi più poveri come se fossero bestiame, per esporle in vendita sulle strade della ricca Europa. Se queste organizzazioni sono state in grado di pianificare un traffico del genere, significa che hanno trovato un terreno favorevole su cui poter coltivare i loro commerci di carne umana. Sembra che le nostre avanzatissime culture occidentali, che sfoggiano razionalità, scienza e progressi, custodiscano ampie zone d'ombra in cui coltivare con cura le proprie crudeltà arcaiche. Da questi dati emerge anche un legame molto forte tra violenza e dato culturale. La discriminazione contro le donne non è semplicemente un fatto "maschile". Infatti, le forme di violenza variano enormemente con il variare delle religioni, delle leggi, dei costumi. La violenza non è un semplice dato biologico, così come non lo sono le differenze di sesso e razza. Se l'aggressività è naturale, la cultura provvede ad incanalarla in strutture gerarchizzate che si reggono ancora troppo sul dominio e sulla violenza. Il comportamento violento si impara. Questo fatto lascia aperto un margine di cauto ottimismo. Se è vero che la violenza si impara, probabilmente è anche vero che si potrebbero imparare modelli di comportamento non violenti. Modelli di comportamento che probabilmente dovrebbero andare in direzioni opposte alla tendenza di questo secolo a creare barriere biologiche ovunque. Antonella Di Martino |