Dio
distratto, ti amo lo stesso
La
storia di un ebreo del ghetto di Varsavia che cerca di
resistere al nazismo. E nonostante la sconfitta non perde
la fede nel Signore di Israele che in quel periodo oscuro
sembra essersi dimenticato della pietà
Zvi Kolitz, Yossl
Rakover si rivolge a Dio, trad. di Anna Linda
Callow e Rosella Carpinella Guarneri, Adelphi, pp.91,
L.12.000
"Credo nel sole anche quando
non splende; credo nellamore anche quando non lo
sento, credo in Dio anche quando tace". Questa
scritta - graffiata sul muro duna cantina di
Colonia, dove avevano trovato rifugio per tutta la
seconda guerra mondiale alcuni ebrei - testimonia in modo
esemplare una fede che, sebbene messa a dura prova
dallOlocausto, trova la forza (o la follia, secondo
taluni) di non deflettere; riassume compendiandolo in un
rigo lintero libro di Giobbe e, tenendo conto del
suo drammatico contesto, allude a come si possa trovare
una conciliazione col proprio Dio anche dopo Auschwitz.
Non a caso sulla figura di
Giobbe - di colui che interroga Jahweh, o si interroga
sullo scandalo del male nel mondo, nonostante Dio
il pensiero contemporaneo è tornato insistentemente (da
Kirkegaard a Jaspers, da Jung a Bloch), in quanto la
problematica delloppressione e della sofferenza di
cui patisce linnocente accomuna credenti e non
nella riflessione filosofica intorno al senso (o al non
senso) dun esistere comunque segnato dal dolore e
votato alla morte.
E su un Giobbe del
novecento si incentra il suggestivo racconto
dellebreo lituano Zvi Kolitz, "Yossl Rakover
si rivolge a Dio", vero e proprio Salmo moderno
pubblicato nel 1946 da una rivista argentina in lingua
yddish e presentato come il testamento di un appartenente
alla resistenza che lottò per difendere il ghetto di
Varsavia nel 43. Per anni il testo, ristampato su
un periodico yddish negli USA e quindi tradotto in
tedesco, in francese ed in ebraico conosce un bizzarro
destino: quello di essere considerato un documento
autentico e non il frutto sia pure geniale della fantasia
di un narratore. Leco che lo scritto suscita è
straordinario. Thomas Mann parla di "documento umano
religioso e sconvolgente", Emmanuel Lévinas, giunge
a riconoscerlo "bello e vero", o meglio
"vero come solo la finzione può esserlo".
E linizio di unautentica leggenda e, in
parallelo, di una disputa infinita che Paul Badde ha
ricostruito ed il cui resoconto Adelphi propone ai
lettori accanto al testo di Kolitz e ad un breve saggio
di Lévinas.
Ma veniamo al racconto.
Tra le rovine del ghetto di Varsavia, dunque, preservato
in una piccola bottiglia, trova scampo alla violenza
nazista il testamento vergato poco prima di morire da
Yossl Rakover, uno fra i coraggiosi che si opposero ai
lanciafiamme delle SS, riuscendo ad organizzare sino allo
stremo uneroica benché tragica resistenza. Il
messaggio del combattente è indirizzato soprattutto al
suo Dio, cui si rivolge in una riflessione che lo chiama
in causa proprio quando il Signore "ha nascosto il
suo volto al mondo". Ma non è con rancore che Yossl
Rakover parla a Jahweh; egli sa bene, come ha
sottolineato Lévinas, che una divinità per adulti non
può manifestarsi se non tramite "il vuoto del cielo
infantile".
Quando, infatti, Dio
scompare dallorizzonte della speranza e luomo
si ritrova senza altra risorsa che quella della propria
coscienza, assurge ad una dignità morale da far sì che
- dice bene Kolitz - il suo rapporto col Dio non sia più
"quello di uno schiavo verso il suo padrone, ma di
un discepolo verso il suo maestro". In una
prospettiva spirituale che vede luomo
religiosamente ateo, allora, per dirla con un paradosso
di Ernst Bloch, o incline ad una religiosità che
rinuncia ad ogni illusione dintervento oltremondano
e si richiama alla responsabilità morale di ogni
individuo. Unetica basata sulla fratellanza che non
ha bisogno di invocare vendette divine nemmeno contro i
nazisti, in quanto essi "si sono già condannati da
sé, e a quella sentenza non potranno più
sottrarsi".
Per questo Yossl, pur
soffrendo del silenzio di Dio non gli chiede nulla,
nemmeno la ragione della sua assenza, denuncia solo con
fierezza la propria identità di ebreo ed il proprio
destino di sconfitto ma non vinto, pari a quello di
quanti altri che - come gli anonimi del graffito di
Colonia -, pur abbandonati dal Signore di Israele,
potrebbero riconoscersi in quel combattente
"colpito, ma non asservito, amareggiato ma non
deluso, credente, ma non supplice, colmo damore per
Dio, ma senza rispondergli ciecamente amen".
Francesco Roat
|