Paolo
Conte non ripete
Anche
lavvocato-jazz di Asti come Paganini odia le
repliche uguali a se stesse. E ama cambiare spesso quelli
che chiama i "colori" della sua musica. Eppure
da quando ha cominciato la sua carriera di cantautore lo
stile di fondo è rimasto quasi immutato. In attesa,
racconta in questa intervista, che qualcuno gli insegni
lelettronica...
Quasi sessantenne, Paolo Conte non
ha perso il suo fascino. Piemontese di Asti è un
avvocato un po' particolare che a cavilli e codici
preferisce ovattate atmosfere jazz e storie quotidiane,
raccontate da dietro un pianoforte da cui sporgono i
baffi, gli occhi ed il naso di un grande
"charmère".
Perché in Paolo Conte
c'è una ricerca continua delle sonorità?
Io la ricerca dei suoni la
faccio sempre perché mi devo un po' anche divertire,
visto che, facendo tante tournee un po' dappertutto, devo
sfuggire quanto più mi è possibile alla ripetitività
del repertorio. Quindi cambio "i colori" per
poter avere ogni sera un motivo nuovo di interesse. E poi
c'è un motivo psicologico, i musicisti devono essere
sempre tenuti sulla corda, perché ripetersi può fare
molto male.
Che cosa è cambiato in
lei a livello stilistico?
Nulla. Dentro di me, a
livello stilistico non è cambiato nulla. A me piace
sperimentare, però io mi stupisco quando si trovano dei
cambiamenti nella mia musica. A partire dai primi dischi
i giochi, in realtà, erano già fatti. Non ero più
giovanissimo ed il mio stile era già delineato. Nei
concerti, è vero, ho cambiato qualcosina, perché
all'inizio li facevo da solo al pianoforte, poi ho potuto
iniziare a permettermi delle orchestre più grandi. Il
vecchio sogno di fare più musica che parole l'ho covato,
forse, fin dalle origini ed adesso lo attuo perché il
successo e le possibilità economiche mi permettono di
farlo.
Lei è uno dei pochi
artisti italiani ad avere successo anche all'estero. Che
differenza c'è tra il pubblico italiano e quello
straniero?
Oltre la barriera della
lingua, nessuna. Il tipo di gente è lo stesso.
Per chi compone Paolo
Conte?
Questo privilegio di
comporre per me l'ho sempre avuto, me lo sono sempre dato
nel senso che non ho mai voluto mettere in atto una
strategia per arrivare al successo, ma devo dire che il
sogno di comporre esclusivamente per sé stessi e non
farsi più vedere non so se è realizzabile.
Nell'artista, il pubblico è qualcosa di implicito.
Lei ha anche l'hobby
della pittura: che differenza c'è tra dipingere e
suonare?
La pittura ti può
permettere un isolamento, ti fa stare più tranquillo, ti
eccita meno, ti costringe meno a verificare i risultati e
se è buona o se è cattiva ti accontenti. Con la musica,
invece, hai la necessità del pubblico.
Che cosa pensa della
musica elettronica?
A me quello che dà
fastidio dell'elettronica è l'uso che se ne sta facendo
da più di vent'anni, perché è un uso limitato, ovvero
la musica elettronica viene trattata come un surrogato
degli strumenti tradizionali. Ma un domani che se ne
facesse un discorso globale, ovvero tutto elettronico,
allora potrebbe essere molto interessante.
Quindi dobbiamo
desumere che Paolo Conte, tra le sue sperimentazioni, ama
giocare con la musica elettronica?
No, io sono negato
addirittura nel mettere la spina nel muro quindi
figuriamoci per il resto. Se avessi degli assistenti che
mi preparano tutto, potrei anche pensare di farlo...
Uno dei suoi ultimi
album si chiama: "Novecento". Che cosa pensa
degli atteggiamenti, forse un po' "esagerati"
della gente che vive questi ultimi anni del secolo?
Nelle notti di insonnia,
avendo ancora qualche nostalgia del mio vecchio mestiere,
mi invento dei processi fantasma e sto elaborando sempre
più una mia teoria, alla quale credo abbastanza, ovvero
quella dell'epidemia. Tantissimi comportamenti umani,
specialmente di questi anni, sono sotto il segno
dell'epidemia e per questo chiederei delle attenuanti
basate "de iure condendo" su questo concetto.
Marco Spagnoli
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