Le guerre di Napoli
Ha scelto di raccontare la
città partenopea così com'è, lontano dai luoghi comuni e cartoline. Così Mario
Martone, uno dei più interessanti giovani registi italiani, nel suo ultimo film Teatro
di guerra affianca i napoletani agli abitanti di Sarajevo. Per spiegare che sia nelle
battaglie vere che in quelle private e quotidiane il dolore può essere uguale
Sono bastati tre film (Morte di un matematico
napoletano, Lamore molesto e il recentissimo Teatro di guerra) a imporre
il nome di Mario Martone tra quelli dei più interessanti giovani registi italiani. Il suo
modo di raccontare Napoli, una città che egli mostra così come è, lontana dalle
"cartoline" e dai tanti luoghi comuni, ha fatto di lui un punto di riferimento
per la cultura partenopea e non solo. Uomo di cinema, di teatro e intellettuale impegnato
per la ricostruzione morale e civile della sua città, Martone affronta temi scottanti
nella sua cinematografia, raccontando storie che parlano daltro e mostrando a tutti
quella realtà degradata che costituisce la vita quotidiana di una parte cospicua degli
abitanti di Napoli.
Ma Martone è anche altro da questo: il suo impegno civile
lo ha portato anche fuori dalla sua città a confrontarsi con realtà diversissime come
quella del popolo africano Sahrawi su cui ha girato alcuni cortometraggi per sostenerne la
lotta per lindipendenza.
Arriva a questo punto della sua maturità artistica un
libro intitolato Teatro di guerra - Un diario con tanto di prefazione di Enrico
Ghezzi (Bompiani pagg.270 - lire 34.000) che oltre a raccogliere la sceneggiatura del film
e alcuni appunti sulla sua realizzazione, unisce alcuni scritti programmatici di un
po di tempo fa al diario di Martone durante il suo viaggio a Sarajevo per preparare
la realizzazione di Teatro di guerra.
Abbiamo incontrato Mario Martone in occasione della serata
donore che gli è stata dedicata a Roma, al Festival del cinema dellIsola
Tiberina, organizzato dallAssociazione Amici di Trastevere, che oltre ad
avere proiettato i due film più recenti di fronte a un pubblico entusiasta, ha avuto il
grande merito di riunire in una serata sola i sei cortometraggi realizzati da Martone
durante la sua carriera.
Martone, allora da dove nasce questo libro ?
Il libro è nato dal
desiderio di raccontare "laltro film", fratello di Teatro di guerra che
non è stato fatto. Cerano una serie di elementi narrativi interessanti che non sono
arrivati nel film finito come lamico di Sarajevo che viene a Napoli, e altri che poi
ho preferito non realizzare nella versione definitiva di Teatro di guerra. Questo
libro racconta un lungo percorso che parte dal mio viaggio in Bosnia insieme a Andrea
Renzi per trovare lattore che doveva interpretare il regista bosniaco che sarebbe
venuto a Napoli, le prove dello spettacolo, lattesa dellarrivo dello scrittore
Jenkovic che poi non è potuto venire più e tutte le fasi che hanno allontanato la
possibilità di inserire nel film il personaggio che veniva da Sarajevo. Questo ha reso il
film più radicale e più "giusto" rispetto a come io stesso lavevo
concepito.
Rendendo il suo personaggio un po come quello di Aspettando
Godot che non compare mai...
Esprimendo quella distanza incolmabile che esiste tra noi e
i cittadini di Sarajevo. Era giusto che questa distanza non venisse "colmata"
cinematograficamente, dato che non lo era stata nella realtà.
A proposito degli appunti scritti durante il viaggio in
Bosnia, sono molto rapidi, spesso anche personali e ricordano quelli degli stranieri che
in Italia e Francia nel Settecento facevano il Grand Tour...
In realtà ho raccolto questi appunti proprio per lavorare,
mentre i viaggiatori che facevano il Grand Tour raccoglievano i loro scritti per
diletto. La mia andata a Sarajevo è stata molto dolorosa e ha impedito qualsiasi rapporto
di natura "creativo-estetica" con questo materiale. È una testimonianza di
quello che ho visto. Ho fatto anche delle riprese con la telecamera, ma mi sono guardato
bene di mostrarle a qualcuno o di riutilizzarle.
Ha mai pensato di girare parte del suo film a Sarajevo
inserendolo nel filone delle pellicole di Anghelopulos e Winterbottom che hanno lavorato
proprio nella capitale bosniaca, il primo durante la guerra, il secondo immediatamente
dopo ?
Mai. Per me è sempre
stato chiaro che non avrei mostrato neppure una singola immagine di Sarajevo proprio per
reagire al bombardamento di filmati che abbiamo subito in Europa. Nessuna guerra è stata
tanto mostrata in televisione e così poco compresa e "sentita" da quelli che
vedevano quelle immagini. Ho voluto eliminare la rappresentazione della "Sarajevo da
cena" che abbiamo vissuto nei Telegiornali della sera per tutti questi anni per
conquistare sullo schermo lo spazio faticoso della rappresentazione teatrale in cui ci si
deve impegnare e dove non basta accendere una telecamera. A teatro ci vuole fatica per
costruire su un palcoscenico nudo limmagine di una Sarajevo "pensata". È
qualcosa di assai duro e - a tratti - doloroso sia per chi lo fa che per chi lo vede. È
un impegno.
Il titolo Teatro di guerra è affascinante
perché contiene numerosi significati. La Napoli che racconta lei è il teatro di una
guerra quotidiana. Non le sembra che assomigli molto a Sarajevo ?
Mi guardo bene dal paragonare Sarajevo a Napoli. Sarajevo
è una città che ha vissuto una condizione tragica che Napoli ha conosciuto soltanto
durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Non cè nulla di
paragonabile. Quello che ho cercato di raccontare confrontando Napoli, Sarajevo e la Tebe
rappresentata dagli attori è stato il minimo comune denominatore rappresentato dal dolore
che è presente in tutte le tre città. Io credo che la guerra non sia una condizione che
riguarda gli altri, ma che sia una malattia endemica pronta a scoppiare nel momento in cui
le condizioni lo consentono. Questo è il richiamo alla quotidianità, alle numerose
guerre che divorano la mia città. Guerre private come quelle degli attori, oppure sociali
legate alla camorra, alla disoccupazione, alla droga. Tutti questi sono segnali che devono
smettere di farci illudere. Quante volte abbiamo sentito dire: "Quelli in
Jugoslavia sono dei barbari!". In realtà quello era un paese come il nostro.
Lavarsi le mani, definendo queste persone dei barbari, pensando che a noi non possa mai
accadere è un atteggiamento molto sbagliato.
Lei ha lavorato molto spesso a quattro mani con la
scrittrice napoletana Fabrizia Ramondino. Che tipo di rapporto è il vostro ?
Fabrizia è per me non solo una grande amica, ma anche una
specie di maestro. È una persona che mi ha "formato", trasmettendomi qualcosa
di molto prezioso. Lultimo capitolo della nostra collaborazione è stato La
salita, uno degli episodi del film I Vesuviani - recentemente riproposto al
Festival di Taormina - che spero avrà una migliore fortuna in futuro rispetto a quello
che è successo a Venezia. Credo che lavoreremo presto di nuovo insieme.
Lei fa parte di una nouvelle vague di
intellettuali napoletani: che differenza cè con le generazioni che vi hanno
preceduto? Cè, forse, un maggiore impegno?
Spero che ci sia il senso di uneredità e mi guardo
bene dal pensare di essere migliore di chi mi ha preceduto. Credo che ci sono stati
intellettuali e artisti che hanno lavorato in condizioni faticosissime, trovandosi dinanzi
a difficoltà enormi. Anche noi fronteggiamo tutto questo. Le stagioni sono diverse le une
dalle altre e non è detto che esista poi un tempo necessariamente migliore rispetto a un
altro. Noi viviamo unepoca apparentemente più tranquilla, che - in realtà - è
molto inquieta, priva di certezze e con molte incognite. Ovviamente cè un filo
antico che lega tra loro le diverse esperienze della cultura napoletana che costituisce -
in ogni epoca - un piccolo firmamento di idee e di esperienze cui fare riferimento. Non è
- comunque - con loro che sento il dovere di confrontarmi, cui tutti noi dobbiamo molto.
Ci sono ben altri nemici a Napoli con cui ingaggiare battaglie da combattere.
Lanno prossimo ricorre il bicentenario della
Rivoluzione Napoletana. Antonietta De Lillo farà un film tratto dal romanzo di Spriano Il
resto di niente incentrato su Eleonora Pimentel Fonseca, eroina della rivoluzione del
1799. Lei pensa di realizzare qualcosa in particolare ?
Le ricorrenze non mi hanno mai attratto particolarmente. I
valori di quella rivoluzione sono parte integrante della cultura napoletana che io amo e
credo sia giusto - dunque - tenermeli dentro e meditarli. Per mia indole sono refrattario
alle celebrazioni in cui vengono "esibite" certe cose, anche se spero che sia
una ricorrenza più sentita che "turistica". Mi auguro che riguardi più Napoli
che la sua immagine. A me dellimmagine di Napoli non importa niente, mi interessa di
Napoli.
Marco Spagnoli |