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LETTURE&SCRITTURE Agosto 1998



Le guerre di Napoli

 Ha scelto di raccontare la città partenopea così com'è, lontano dai luoghi comuni e cartoline. Così Mario Martone, uno dei più interessanti giovani registi italiani, nel suo ultimo film Teatro di guerra affianca i napoletani agli abitanti di Sarajevo. Per spiegare che sia nelle battaglie vere che in quelle private e quotidiane il dolore può essere uguale

Sono bastati tre film (Morte di un matematico napoletano, L’amore molesto e il recentissimo Teatro di guerra) a imporre il nome di Mario Martone tra quelli dei più interessanti giovani registi italiani. Il suo modo di raccontare Napoli, una città che egli mostra così come è, lontana dalle "cartoline" e dai tanti luoghi comuni, ha fatto di lui un punto di riferimento per la cultura partenopea e non solo. Uomo di cinema, di teatro e intellettuale impegnato per la ricostruzione morale e civile della sua città, Martone affronta temi scottanti nella sua cinematografia, raccontando storie che parlano d’altro e mostrando a tutti quella realtà degradata che costituisce la vita quotidiana di una parte cospicua degli abitanti di Napoli.

Ma Martone è anche altro da questo: il suo impegno civile lo ha portato anche fuori dalla sua città a confrontarsi con realtà diversissime come quella del popolo africano Sahrawi su cui ha girato alcuni cortometraggi per sostenerne la lotta per l’indipendenza.

Arriva a questo punto della sua maturità artistica un libro intitolato Teatro di guerra - Un diario con tanto di prefazione di Enrico Ghezzi (Bompiani pagg.270 - lire 34.000) che oltre a raccogliere la sceneggiatura del film e alcuni appunti sulla sua realizzazione, unisce alcuni scritti programmatici di un po’ di tempo fa al diario di Martone durante il suo viaggio a Sarajevo per preparare la realizzazione di Teatro di guerra.

Abbiamo incontrato Mario Martone in occasione della serata d’onore che gli è stata dedicata a Roma, al Festival del cinema dell’Isola Tiberina, organizzato dall’Associazione Amici di Trastevere, che oltre ad avere proiettato i due film più recenti di fronte a un pubblico entusiasta, ha avuto il grande merito di riunire in una serata sola i sei cortometraggi realizzati da Martone durante la sua carriera.

 

Martone, allora da dove nasce questo libro ?

mart1.jpg (12692 byte)Il libro è nato dal desiderio di raccontare "l’altro film", fratello di Teatro di guerra che non è stato fatto. C’erano una serie di elementi narrativi interessanti che non sono arrivati nel film finito come l’amico di Sarajevo che viene a Napoli, e altri che poi ho preferito non realizzare nella versione definitiva di Teatro di guerra. Questo libro racconta un lungo percorso che parte dal mio viaggio in Bosnia insieme a Andrea Renzi per trovare l’attore che doveva interpretare il regista bosniaco che sarebbe venuto a Napoli, le prove dello spettacolo, l’attesa dell’arrivo dello scrittore Jenkovic che poi non è potuto venire più e tutte le fasi che hanno allontanato la possibilità di inserire nel film il personaggio che veniva da Sarajevo. Questo ha reso il film più radicale e più "giusto" rispetto a come io stesso l’avevo concepito.

Rendendo il suo personaggio un po’ come quello di Aspettando Godot che non compare mai...

Esprimendo quella distanza incolmabile che esiste tra noi e i cittadini di Sarajevo. Era giusto che questa distanza non venisse "colmata" cinematograficamente, dato che non lo era stata nella realtà.

A proposito degli appunti scritti durante il viaggio in Bosnia, sono molto rapidi, spesso anche personali e ricordano quelli degli stranieri che in Italia e Francia nel Settecento facevano il Grand Tour...

In realtà ho raccolto questi appunti proprio per lavorare, mentre i viaggiatori che facevano il Grand Tour raccoglievano i loro scritti per diletto. La mia andata a Sarajevo è stata molto dolorosa e ha impedito qualsiasi rapporto di natura "creativo-estetica" con questo materiale. È una testimonianza di quello che ho visto. Ho fatto anche delle riprese con la telecamera, ma mi sono guardato bene di mostrarle a qualcuno o di riutilizzarle.

Ha mai pensato di girare parte del suo film a Sarajevo inserendolo nel filone delle pellicole di Anghelopulos e Winterbottom che hanno lavorato proprio nella capitale bosniaca, il primo durante la guerra, il secondo immediatamente dopo ?

mart2.jpg (17466 byte)Mai. Per me è sempre stato chiaro che non avrei mostrato neppure una singola immagine di Sarajevo proprio per reagire al bombardamento di filmati che abbiamo subito in Europa. Nessuna guerra è stata tanto mostrata in televisione e così poco compresa e "sentita" da quelli che vedevano quelle immagini. Ho voluto eliminare la rappresentazione della "Sarajevo da cena" che abbiamo vissuto nei Telegiornali della sera per tutti questi anni per conquistare sullo schermo lo spazio faticoso della rappresentazione teatrale in cui ci si deve impegnare e dove non basta accendere una telecamera. A teatro ci vuole fatica per costruire su un palcoscenico nudo l’immagine di una Sarajevo "pensata". È qualcosa di assai duro e - a tratti - doloroso sia per chi lo fa che per chi lo vede. È un impegno.

Il titolo Teatro di guerra è affascinante perché contiene numerosi significati. La Napoli che racconta lei è il teatro di una guerra quotidiana. Non le sembra che assomigli molto a Sarajevo ?

Mi guardo bene dal paragonare Sarajevo a Napoli. Sarajevo è una città che ha vissuto una condizione tragica che Napoli ha conosciuto soltanto durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Non c’è nulla di paragonabile. Quello che ho cercato di raccontare confrontando Napoli, Sarajevo e la Tebe rappresentata dagli attori è stato il minimo comune denominatore rappresentato dal dolore che è presente in tutte le tre città. Io credo che la guerra non sia una condizione che riguarda gli altri, ma che sia una malattia endemica pronta a scoppiare nel momento in cui le condizioni lo consentono. Questo è il richiamo alla quotidianità, alle numerose guerre che divorano la mia città. Guerre private come quelle degli attori, oppure sociali legate alla camorra, alla disoccupazione, alla droga. Tutti questi sono segnali che devono smettere di farci illudere. Quante volte abbiamo sentito dire: "Quelli in Jugoslavia sono dei barbari!". In realtà quello era un paese come il nostro. Lavarsi le mani, definendo queste persone dei barbari, pensando che a noi non possa mai accadere è un atteggiamento molto sbagliato.

Lei ha lavorato molto spesso a quattro mani con la scrittrice napoletana Fabrizia Ramondino. Che tipo di rapporto è il vostro ?

Fabrizia è per me non solo una grande amica, ma anche una specie di maestro. È una persona che mi ha "formato", trasmettendomi qualcosa di molto prezioso. L’ultimo capitolo della nostra collaborazione è stato La salita, uno degli episodi del film I Vesuviani - recentemente riproposto al Festival di Taormina - che spero avrà una migliore fortuna in futuro rispetto a quello che è successo a Venezia. Credo che lavoreremo presto di nuovo insieme.

Lei fa parte di una nouvelle vague di intellettuali napoletani: che differenza c’è con le generazioni che vi hanno preceduto? C’è, forse, un maggiore impegno?

Spero che ci sia il senso di un’eredità e mi guardo bene dal pensare di essere migliore di chi mi ha preceduto. Credo che ci sono stati intellettuali e artisti che hanno lavorato in condizioni faticosissime, trovandosi dinanzi a difficoltà enormi. Anche noi fronteggiamo tutto questo. Le stagioni sono diverse le une dalle altre e non è detto che esista poi un tempo necessariamente migliore rispetto a un altro. Noi viviamo un’epoca apparentemente più tranquilla, che - in realtà - è molto inquieta, priva di certezze e con molte incognite. Ovviamente c’è un filo antico che lega tra loro le diverse esperienze della cultura napoletana che costituisce - in ogni epoca - un piccolo firmamento di idee e di esperienze cui fare riferimento. Non è - comunque - con loro che sento il dovere di confrontarmi, cui tutti noi dobbiamo molto. Ci sono ben altri nemici a Napoli con cui ingaggiare battaglie da combattere.

L’anno prossimo ricorre il bicentenario della Rivoluzione Napoletana. Antonietta De Lillo farà un film tratto dal romanzo di Spriano Il resto di niente incentrato su Eleonora Pimentel Fonseca, eroina della rivoluzione del 1799. Lei pensa di realizzare qualcosa in particolare ?

Le ricorrenze non mi hanno mai attratto particolarmente. I valori di quella rivoluzione sono parte integrante della cultura napoletana che io amo e credo sia giusto - dunque - tenermeli dentro e meditarli. Per mia indole sono refrattario alle celebrazioni in cui vengono "esibite" certe cose, anche se spero che sia una ricorrenza più sentita che "turistica". Mi auguro che riguardi più Napoli che la sua immagine. A me dell’immagine di Napoli non importa niente, mi interessa di Napoli.

Marco Spagnoli