Riceviamo e pubblichiamo questo intervento di Danilo D'Antonio del Laboratorio
Eudemonia. Sono alcune idee che possono far discutere ma che, proprio per questo,
potrebbero innescare un dibattito interessante
Per una evoluzione del pubblico
impiego
Tra le tante innovazioni oggi necessarie nel nostro modo di
vivere, almeno una riguarda il pubblico impiego. Vi sono dei lavori che, per loro utilità
comune, o per l'amministrazione di beni e servizi comuni, o la sicurezza di tutti (quindi:
educazione, sanità, impieghi comunali, provinciali, regionali, statali, protezione
civile, polizia, carabinieri, finanza, vigilanza, ecc. ecc.) sono categorizzati sotto il
nome di pubblici impieghi: essi servono la collettività e l'intera collettività se ne
serve.
Come tutti sappiamo, oggi il pubblico impiego viene
affidato a persone scelte tramite particolari procedure che intendono selezionare i più
idonei, tra i tanti che vorrebbero svolgerlo. Una volta selezionate le persone più
idonee, è uso assegnare ad esse l'impiego in questione per l'intera durata della loro
vita. Ebbene: andrebbe tutto a meraviglia, se non fosse che, essendo i posti disponibili
di numero ben inferiore rispetto a quello, non solo degli aspiranti, ma, cosa molto
importante, anche degli idonei, ciò che si assegna a quei pochi prescelti, in pratica,
non è tanto un lavoro, bensì un vero e proprio privilegio rispetto al resto della
società, privilegio d'altronde di origine del tutto ingiustificata. Se riconosciamo,
infatti, la società, nella sua interezza, essere depositaria del diritto di usufruire dei
pubblici beni e servizi, allo stesso modo dobbiamo riconoscerle il diritto di equa
partecipazione alla amministrazione e svolgimento di tali beni e servizi.
Quando nacque l'impiego pubblico in senso moderno,
determinate mansioni cominciarono da subito ad essere assegnate a determinate persone in
una corrispondenza univoca. In maniera del tutto naturale, infatti, si perpetuò lo schema
del lavoro classico, in cui una persona, iniziando una attività lavorativa, facilmente
sviluppava una certa fedeltà ad essa, e la continuava, salvo rare eccezioni, fin dopo il
termine della sua stessa vita, attraverso le generazioni successive. Fu estremamente
semplice, quindi, per il pubblico impiego sposare questo stesso sistema. Oltre a ciò,
putroppo, vi è stato in seguito anche un esacerbamento di questa concezione,
esasperazione avvenuta ad opera del fenomeno del "favoritismo", in cui
l'assegnazione a vita di un posto di lavoro garantiva una fedeltà di eguale durata al
politico che lo avesse assegnato. Oltre che aggravare in generale la situazione, questo
fenomeno ha ritardato di molto la presa di coscienza del fatto che in realtà il lavoro di
pubblica utilità non può essere di proprietà esclusiva di alcuno, proprio per sua
stessa definizione di pubblica attività. Finora abbiamo concepito questa definizione solo
in un senso (che ognuno, cioè, possa usufruire dei suoi servizi), ma oggi, con la
situazione di tremenda disparità che si è venuta a creare nel campo dell'occupazione e
dei redditi della popolazione, non possiamo non renderci conto di come il pubblico impiego
debba essere considerato tale sotto tutti gli aspetti, anche e soprattutto dal punto di
vista della sua esecuzione.
Occorre, in somma, al più presto, prendere in seria
considerazione l'idea di abolire l'iniquo privilegio dell'impiego pubblico assegnato a
vita a pochi eletti, in favore di una sua più equa ripartizione tra tutti coloro che
desiderassero svolgerlo e dimostrassero di possederne tutti i requisiti necessari. Ci
attende un compito estremamente semplice: effettuare il conteggio delle ore di lavoro
necessario al buon andamento della nazione, contare il numero delle persone disponibili ed
idonee a svolgerlo, distribuendo poi equamente le prime tra le seconde.
E' da considerare, poi, al di là di quella che potrebbe
sembrare una pura questione di teorica equità, che, introducendo una tale riforma, le
cose nel nostro Paese comincerebbero a funzionare molto meglio in vari àmbiti:
l'introduzione di una intelligente rotazione del
personale all'interno delle pubbliche strutture apporterebbe immediatamente un flusso di
fresca energia creativa, rimuovendole da quella condizione di eterno immobilismo, che noi
tutti ampiamente verifichiamo, dovuto al senso di proprietà esclusiva che ogni impiegato,
di qualsiasi livello, oggi attribuisce al "suo" posto di lavoro. Ogni nuovo
dipendente apporterebbe il suo contributo originale, personale, diverso da ogni altro,
introducendo una capacità creativa e produttiva senza eguali, lungo una linea di costante
rinnovamento e miglioramento. Per giunta, coloro che fossero momentaneamente sostituiti da
altri, avrebbero l'opportunità di riacquistare le forze e ritemprarsi lo spirito, oltre
che di tenere costantemente aggiornata la loro preparazione tecnica, gettando, quindi, le
basi per una vita senza dubbio complessivamente migliore innanzitutto per se stessi. La
genìa dei pubblici dipendenti stanchi, annoiati e senza speranza di un futuro mutevole e
per questo più interessante scomparirebbe per sempre, per far posto ad un gioioso,
attento, accurato ed efficiente esercito di pubblici dipendenti.
un manifesto senso di giustizia ed uno spirito di
istintiva collaborazione si diffonderebbe subito all'interno della società. Si
dissolverebbe quel clima di reciproca sfiducia che ci opprime, ormai da tempo, un po'
tutti in varia misura, sfiducia causata proprio da situazioni simili a questa, qui
descritta, per disparità, irragionevolezza ed ingiustizia. Cadrebbe inoltre quella
distinzione tra stato e cittadino che oggi facilmente tende a separarci dalle istituzioni,
e ci ricorderebbe invece che lo stato siamo noi tutti, non solo alcuni e nessuno escluso.
non essendo più il pubblico impiego proprietà di
pochi privilegiati, bensì diritto e perfino dovere di noi tutti, e potendoci invece
concretamente identificare con lo stato, sarebbe possibile, con estrema facilità e
guadagno per tutti, razionalizzarlo e renderlo efficiente ben oltre il livello attuale.
Naturalmente la retribuzione pro capite derivante dal, e
proporzionale al, proprio contributo alla società sarebbe inizialmente inferiore a quella
percepita dai pubblici dipendenti di oggi. Questo, però, lungi dall'essere un fatto
negativo, ci permetterà di divenire finalmente più consapevoli dell'effettiva ricchezza
del nostro Paese e di distribuirla più equamente. Saranno impediti inutili sprechi e
spese vane da parte di pochi eletti, mentre sarà permessa una più ampia diffusione di un
sano benessere. Inoltre, ristabilendo l'equilibrio tra gli interessi in gioco, sarà più
semplice individuare e sviluppare quegli aspetti più convenienti delle attività
pubbliche ed eliminare rami secchi e saprofiti.
Nel tempo, impegnando più saggiamente e produttivamente le
forze umane in gioco, potremo perfino giungere al punto di compiere una magica quadratura
del cerchio. Dando più impulso alla scienza ed alla ricerca ed aiutandoci con la
tecnologia, potremo continuare lungo una positiva strada intrapresa, sì, già da tempo,
ma ancora spesso rallentata dalle nostre irrazionalità: costruire una società
equilibratamente più ricca, affannandoci molto, molto meno che oggi.
Danilo D'Antonio |