Nabokov,
non solo Lolita
Molti
autori sono ricordati solo per il loro libro-capolavoro. Dimenticando così il resto del
loro lavoro. E' la sorte de "L'Occhio", scritto dal romanziere russo nel 1930:
una specie di poliziesco che serve in realtà a spiegare come dopo la morte il pensiero
possa continuare ad esistere
Vladimir Nabokov, L’occhio, trad. di Ugo
Tessitore, Adelphi, pp.101, L.14.000
Per molti uno scrittore – specie se un classico – viene a
coincidere col suo capolavoro. Così Kafka è tutt’uno con "Il processo",
Joyce equivale all’"Ulisse" e, anziché Italo, il nome che balza alla mente
pensando a Svevo è "Zeno". A tale destino d’immedesimazione con
l’opera più celebre non sfugge certo Nabokov, legato indissolubilmente a
"Lolita": il libro che ha eclissato, anziché promuoverli, gli altri testi di
uno tra i grandi prosatori del novecento. Specie gli scritti cosiddetti minori, quali ad
esempio i romanzi appartenenti al periodo berlinese di cui fa parte
"L’occhio", composto dapprima in russo nel 1930, quindi in inglese nel
1965.
L’ordito del racconto, come rimarcò lo stesso
Nabokov, mima quello della narrativa poliziesca, ma è solo l’occasione per intessere
un esilarante arazzo surreale, dove l’ingegnosità fabulatoria non sta tanto nel
proporre un intrico da dipanare bensì nel disegno ovvero nel gioco di riflessi,
sdoppiamenti e stranianti agnizioni che fanno dell’"Occhio" un romanzo
estremamente moderno e godibilissimo.
La vicenda infatti piglia sì l’avvio all’insegna
d’un suicidio, ma fin dalle prime pagine il lettore comprende che il racconto si basa
su una scommessa: narrare in che modo dopo la morte il pensiero possa seguitare ad
esistere per forza d’inerzia. Tema di "The Eye" – sottolinea Nabokov
nella prefazione al libro – è "lo svolgersi di un indagine che guida il
protagonista in un inferno di specchi e si conclude con le immagini gemelle che si fondono
in una". Dunque non già come voleva Calderón de la Barca: la vita è sogno,
ma piuttosto è un romanzo la vita.
Francesco Roat |