I mercoledì del Principe
In un'epoca in cui i miti nascono e
muoiono troppo frequentemente, ci piace pensare a Giulio Einaudi come a quel principe
dell'editoria che hanno descritto un po' tutti i giornali in questi giorni. Ed ora che se
ne è andato per sempre, ci piace anche soffermarci a ripensare a questa figura
affascinante di un secolo al tramonto.
Nel 1933 il ventenne Giulio Einaudi fondava la casa
editrice che da lui prese il nome, nello stesso palazzo che era stato sede dell'Ordine
Nuovo di Gramsci. Inizialmente fu principalmente editore di riviste: La Rassegna
Musicale di G. M. Gatti nel '33, La Cultura di C. De Lollis (e poi diretta da
Pavese) nel '34 , la Rivista di Storia Economica che sostituì nel '36 la Riforma
Sociale del padre Luigi, e la rivista di attualità scientifica Il Saggiatore
nel '40. Ma anche quando era ormai avviata l'attività editoriale di libri e volumi,
rimase in lui la passione per la ricerca ed il dibattito, propria dell'editore di
periodici.
Quel dibattito che lui 'fomentava' anche all'interno del
proprio staff: per valutare un libro scientifico, ad esempio, usava proporne la lettura ad
un 'letterato', e viceversa.
Tutti hanno anche parlato della ruvidezza del suo carattere
che, però, ha solo contribuito ad aumentarne il fascino. Vittorio Bo lo ha descritto come
"una persona giovane. Sempre.
sempre in cerca di nuovi stimoli, nuove
iniziative."
Ma torniamo agli anni degli inizi. La sede dell'Ordine
Nuovo di Gramsci vedeva la nascita della Casa Editrice a novembre dello stesso anno in
cui, in Germania, Hitler saliva al potere. Infatti, se anche Che cosa vuole l'America?
di H. A Wallace, primo volume pubblicato da Einaudi, era comparso sul Popolo d'Italia
nell'editoriale di Mussolini, la Casa Editrice era già sotto il controllo della polizia
fascista. Leone Ginzburg venne incarcerato nel 1934 nel Regina Coeli (dove morì sotto le
torture della Gestapo), e l'anno seguente lo stesso Giulio Einaudi fu arrestato insieme a
Vittorio Foa, Massimo Mila, Franco Antonicelli, Carlo Levi, Cesare Pavese, Norberto
Bobbio, Cesare Salvatorelli e altri. Le sue riviste furono soppresse.
La sua impronta di sinistra non impedì un costante legame
col padre liberale. Durante l'esilio in Svizzera (Giulio a Ginevra, Luigi a Losanna) si
tennero in contatto e, nel 1943, quando il figlio decise di tornare in Italia per
partecipare alla Resistenza, il padre gli raccomandò solo di "restare interiormente
fedele" a ciò in cui credeva, come ha raccontato Galante Garrone. Nessun riferimento
ai contrasti politici, quindi, solo una vicinanza spirituale nell'opposizione attiva al
fascismo. D'altronde a Giulio mai fece piacere l'appellativo di "editore rosso".
Non c'è da stupirsi che fosse un uomo "non
facile": era un uomo che lottava per ciò in cui credeva pur restandone un po' al di
sopra. Ed ecco da dove è nata la sua immagine di principe dagli occhi di ghiaccio che
dominava la sua Casa Editrice, anche quando non era più sua.
Sono rimasti 'mitici' (così li definisce Marco Belpoliti)
i mercoledì in cui si riuniva coi suoi collaboratori e discutevano delle future
pubblicazioni. E così è nata la leggenda che lui non leggesse i libri che editava. Una
leggenda che ha un fondo di verità: per lui erano più importanti le persone che li
scrivevano. Da questo nascevano amicizie e collaborazioni, come forti dissidi, perché
quello che lui cercava erano sempre nuove idee.
Lentamente la casa editrice di economia, politica, storia e
scienze si trasformò in una editrice anche di narrativa e letteratura: dopo 5 anni
comparvero le traduzioni di Goethe ad opera di Spaini, di Defoe realizzate da Pavese e la Nuova
raccolta di classici italiani annotati con le Rime di Dante commentate da G.
Contini. Nel suo lavoro, inoltre, fu capace di raccogliere opere di vario calibro
politico, tanto da ricevere ad ottobre dell'anno scorso la laurea honoris causa
all'Università di Torino.
Nel frattempo aveva cominciato a pubblicare anche opere di
poesia: le Occasioni di Montale e la ristampa degli Ossi di seppia.
Poi scoppiarono le crisi: nel '63, nell'83 e nell'89,
quando la casa editrice fu assorbita dalla Elemond. Einaudi ne rimase comunque presidente
e, come ha sempre dichiarato, libero nelle proprie scelte.
Nulla era stato mai facile, però. Egli stesso ha
dichiarato: "Dovevi aumentare il debito per poter pagare gli interessi, ma anche
quando gli utili erano sufficienti a pagare gli interessi, era ugualmente faticoso,
perché, per estinguere un debito, prima dovevi accenderne un altro."
Ed i mercoledì rimanevano un'"oasi di
rilassamento" perché sentiva parlare "di libri, non di soldi". Da quei
pomeriggi voleva tener fuori le questioni economiche, tanto che dall'ultima crisi egli si
sentiva sollevato: "Godo, nel lavorare, più oggi che dieci o vent'anni fa, quando
avevo l'assillo".
Infine, in un mercoledì di aprile c'è stata anche
l'ultima 'riunione' con lui. E come ogni mito che si rispetti, se ne è andato come
desiderava: lavorando fino all'ultimo e "abbastanza cattivo per vedere gli errori
degli altri".
Tatiana Tartuferi |