Aborrita
dalla civiltà occidentale e dalla moda imperante del
"giovani a tutti i costi". Sostituita dal più morbido
e politically correct "maturità". Insomma reietta
perché temuta, la vecchiaia torna da vincitrice nell'ultimo
libro di Manlio Sgalambro. Che la esalta e la ripropone come
l'unica età, dice, dove abbandonato il ciclo lavorativo,
riproduttivo e sociale, si vive veramente la vita
Manlio Sgalambro,
Trattato dell'età, Adelphi, pp.130, L.14.000
Vecchiaia.
Parola che suona dissonante, molesta, anzi sgradevolissima alle
orecchie di tutti noi postmoderni. Non si può essere
vecchi alle soglie del millennio che viene: semmai maturi, al
limite longevi. Vecchi, mai e poi mai. Il galateo delle
apparenze (così caro a questo nostro tempo contrassegnato da
una idolatria banalmente giovanilistica – a questa nostra
civiltà occidentale così estetizzante e narcisistica, all’insegna
com’è di lifting, fitness e rimozione) lo aborrisce e lo
vieta.
Rema dunque senz’altro
controcorrente l’eterodosso intellettuale Manlio Sgalambro:
sorta di provocatorio censore dei cattivi costumi filosofici, il
cui stile corrusco e polemicissimo può venire avvicinato –
pur con tutti i debiti distinguo – a scrittori contro
quali un Cioran o un Bernhard. Sgalambro, dicevo, non pago del
suo impietoso Trattato dell’empietà con cui metteva
alla gogna moralismi & amoralità filosofiche, torna con un
altro ancor più polemico trattato; questa volta sulla
vecchiaia: l’ignominiosa per antonomasia fra tutte le parole
pronunciabili nei salotti massmediatici.
Sia ben chiaro da
subito: Sgalambro prende le distanze non solo da una
Weltanschauung pessimistico/svalutativa che vede nella
senescenza l’anticamera della morte, all’insegna di
decadenza fisica, ottundimento dei sensi e declino
intellettuale. Egli si tiene lontano pure da una visione
edulcorata della vecchiaia, che vorrebbe sublimare il vecchio in
un’aura stucchevole di saggezza in capelli bianchi, ben
temperata dal venir meno di passioni e appetiti. Niente di tutto
questo. Semplicemente per il Nostro vecchiezza rappresenta
"il momento del compimento"; una sorta di perfezione
esistenziale fatta di assenza di scopi da perseguire e
nobilitata dalla tranquillità "di un destino
attuato".
Attenzione però:
perturbante è il vecchio, avverte Sgalambro, in quanto
attraverso di lui si scorge il mondo come è e non come lo
vorrebbe il giovane. Non solo. La tarda età, secondo questo
anomalo trattato, sarebbe l’età maggiormente propizia all’amore.
Un amore non volto al possesso o bramoso di generare replicanti
dell’io. Un amore che non servendo a nulla si può
espandere "nel puro rapporto". Altro che decadimento
involutivo!
Certo, da vecchio
l’eros "scaturirà da ciò che sei, amico, non dalle
fattezze del tuo sedere", poiché la mera sessualità
genitale dovrà trasformarsi, dilatarsi in una sessualità
totale, stigmatizza Sgalambro in un implicito j’accuse
nei confronti di ogni velleità regressiva di chi vorrebbe ad
ogni costo far tornare indietro il proprio orologio biologico.
Ancora: il tempo senza più urgenza di tempo che
contraddistingue la vecchiaia, fatto di un qui e ora da
assaporare senza urgenza alcuna, è pure quello di un
osservatorio privilegiato sul mondo e sugli uomini. Si tratta
appena, sottolinea Sgalambro, "di ritirare la
rappresentazione gettata sul mondo come una rete per
catturarlo"; in un filosofare, dunque, non più giovanile
– fatto di sistemi asseverativi o saccenti – e che, a mio
parere, avvicina il vecchio di Sgalambro al mistico e al
contemplativo.
Il trattato,
infine, muta all’improvviso in un’eccentrica lettera/apologo
ad una donna amata o ad un’amica, in cui l’io
narrante-filosofo celebra gli aspetti positivi della vecchiaia:
a suo dire l’età per eccellenza; l’unica vera età dell’uomo,
allorché, conclusisi i cicli riproduttivo, lavorativo e
sociale, in piena libertà si può davvero "cominciare a
vivere".