I film di
dicembre 2002/gennaio 2003 (I)
Il Signore degli Anelli
– Le due torri (Lord of the Rings –
The Two Towers) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Elijah
Wood – Ian McKellen – Viggo Mortensen -
Liv Tyler – Cate Blanchett – John Astin
– Orlando Bloom – Miranda Otto – David
Wenham Sceneggiatura Frances Walsh Regia
Peter Jackson Anno di produzione USA –
UK – NZ 2002 Distribuzione MEDUSA Durata
180’
E’ tempo
di guerra nella Terra di Mezzo…E’ tempo
che il destino si compia. Ed è tempo che
arrivi anche in Italia questo
straordinario film che Peter Jackson
porta davanti al pubblico mondiale ad un
anno esatto dall’uscita del suo
fortunato predecessore. Un periodo di
tempo da molti fans considerato
lunghissimo, interrotto – fortunatamente
– dalle uscite di Dvd antologici e dalle
indiscrezioni sui capitoli successivi a
La compagnia dell’anello. Come
era capitato in maniera inaspettata
anche per la seconda puntata della saga
di Harry Potter anche Le due torri
riesce a superare l’originale in
intensità e spettacolarità. Prendendo le
mosse esattamente dove avevamo lasciato
i resti della compagnia dell’anello,
ecco che la storia si divide in tre
tronconi. Da un lato abbiamo Frodo e Sam
che – inseguiti da Gollum – combattono
eppoi fanno amicizia con questa
enigmatica creatura completamente
realizzata in digitale. Chi era rimasto
sorpreso dallo Yoda di Episodio 2
con questo film si sentirà – non solo in
senso spirituale e metafisico – condotto
in un altro mondo. Gollum che in
originale ha la voce di uno
straordinario Andy Serkis, ha delle
animazioni perfette non solo nei
movimenti, quanto piuttosto nelle
espressioni facciali che lasciano
intendere il dramma della sua anima
lacerata che solo Padron Frodo – in un
certo senso – riesce a toccare,
intuendone la sofferenza. L’altro gruppo
è quello di Gimli e Brandybuck: rapiti
dall’esercito di Saruman, riescono
miracolosamente a trovarsi in una
foresta popolata da alberi tutt’altro
che disposti a vedere iniziare una
guerra senza esserne protagonisti.
L’anima naturalista ed ecologista (nel
senso più puro del termine) del romanzo
tolkeniano prende forma come un sogno
meraviglioso dinanzi ai nostri occhi,
quando le querce si ribellano
all’appetito per la distruzione della
Natura dimostrato dal mago corrotto.
Terzo ed ultimo troncone è quello
rappresentato da Aragorn e compagni che
finiscono nel reame di Rodan dopo essere
stati lì guidati da Gandalf il bianco e
non più “il grigio” dopo la sua
resurrezione (Lo si vede anche nel
trailer, e quindi prego di non
considerare questa digressione uno
spoiler…). Ma Le due torri,
libro che è bene ricordarlo fu
pubblicato l’11 settembre (controllare
per credere…) del 1954 è soprattutto un
film sulla guerra degli uomini e dei
loro alleati contro un esercito
infernale. Una celebrazione mitologica
del confronto tra le forze del Bene e
del Male che Jackson rende in maniera
strepitosa dal punto di vista registico.
Pur durando tre ore, anche il secondo
capitolo della saga non solo non annoia
mai, ma esalta lo spettatore in virtù di
una forza visiva e narrativa superiori a
quelle de La compagnia dell’anello
che – per forza di cose - doveva un
po’ mettere al corrente lo spettatore
digiuno dal romanzo di ciò che stava per
vedere. Anche Le due torri,
continuando a sviluppare la storia
attraverso il viaggio emotivo e fisico
dei protagonisti, presenta nuovi
personaggi: Théoden (Bernard Hill), Re
di Rohan, stregato da un incantesimo di
Saruman, Eowyn (Miranda Otto) vedova
del figlio del Re e con una crescente
passione per Aragorn, Faramir (David
Wenham) fratello del compianto Boromir (Sean
Penn) che per primo aveva tradito la
compagnia. Trasfigurato da una colonna
sonora ancora più rarefatta e nelle
corde dello spirito del pubblico alla
ricerca di qualcosa che vada oltre
(Sheila Chandra e Emiliana Torrini
“fanno fuori” Enya), Le due torri
brilla nel suo essere una discesa verso
gli abissi della violenza e della
guerra, quando tutto il mondo intorno
sembra crollare, alla ricerca della
speranza per un futuro migliore. Più
mistico di Excalibur e più
avvolgente de La compagnia
dell’anello, Le due torri
rappresenta uno dei momenti più alti
della storia del cinema. Nonostante le
sue evidenti limitazioni: il fatto –
sostanzialmente – di non finire (ma il
suo finale è meno cruento e repentino
rispetto al predecessore) e –
soprattutto – di essere l’episodio
centrale di una saga che – a conti fatti
– rappresenterà senza dubbio una di
quelle di maggior successo (peraltro
meritato).
Un film
emozionante che condurrà lo spettatore
in un altro mondo alla ricerca sì
dell’intrattenimento, ma anche dello
stesso messaggio etico e spirituale
contenuto all’interno del romanzo di
Tolkien. Lontano dalle luci della Contea
e dai sogni di ragazzo di Frodo, la
battaglia finale si sta avvicinando…
Tutta colpa dell’amore (Sweet
Home Alabama) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Reese
Whiterspoon – Josh Lucas – Patrick
Dempsey – Candice Bergen Sceneggiatura
C.Jay Cox Regia Andy Tennant Anno di
produzione USA 2002 Distribuzione Buena
Vista Durata 108’
“Una
provinciale a New York – La rivincita
della provincia.” Potrebbe essere il
titolo ideale di questo film che si rifà
alla lontanissima al medesimo spirito
della famosa pellicola di quaranta anni
fa con Jack Lemmon e – più concretamente
- all’idea della Grande Mela come vero
faro di un’intera nazione.
Una
commedia in cui la ragazza venuta dalla
provincia che ha conquistato il
successo come stilista, diventa la
fidanzata del figlio del primo sindaco
donna di New York. Costretta a tornare a
casa per chiedere – finalmente - al
marito il divorzio, sembra riscoprire
inaspettatamente i pregi dei luoghi e
delle persone da cui era scappata. Una
storia di equivoci prevedibili di cui è
protagonista una divertente Reese
Whiterspoon che dopo La rivincita
delle bionde si propone come una
delle attrici di maggiore successo per
quanto riguardo l’ambito della commedia
giovanile americana. Marcatamente
statunitense, la rivalità continua tra
Nord e Sud nonostante la guerra di
secessione e – soprattutto – il passare
del tempo è uno dei temi caldi di un
film in cui gli amori giovanili,
l’adolescenza e la monotonia della
provincia si scontrano idealmente con il
glamour newyorchese. Una
rivincita un po’ ingenua e leggera dello
spirito rurale, dove tutto va a posto
per conto suo.
Un’erede
lontana delle commedie con Cary Grant e
Katherine Hepburn come Susanna,
con l’unica differenza che il passare
del tempo ha reso tutto più prevedibile
e deja vu.Nonostante questi
difetti, uno dei maggiori successi della
stagione in corso in America…da non
credersi…
Harry
Potter e la camera dei segreti (Harry
Potter and the chamber of secrets) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Daniel Radcliffe –
Rupert Grint – Emma Watson – Kenneth
Branagh – Richard Harris – John Cleese –
Robbie Coltrane – Jason Isaacs – Alan
Rickman – Fiona Shaw – Maggie Smith –
Julie Waltes Sceneggiatura Steve Kloves
Regia Chris Columbus Anno di produzione
UK 2002 Distribuzione Warner Bros.
Durata 159’
Più
maturo (e non solo fisicamente) Harry
Potter torna con un altro film
ingiustamente bollato dalla stampa
americana come “più dark”
rispetto al suo predecessore. In realtà
La camera dei segreti è una
pellicola maggiormente incentrata sulla
vita a Hoghwarts e sulle magie che il
giovane Harry deve portare avanti per
salvare se stesso e i suoi amici da un
complotto che potrebbe rivelarsi fatale
non solo ai suoi danni, ma anche a
quelli dell’intera scuola. E’ per questo
che la trama del film è sviluppata
principalmente sul rapporto di amicizia
e lealtà tra i tre protagonisti (Harry,
Hermione e Ron) piuttosto che sulla
presentazione della scuola e del mondo
dei maghi, com’era giusto fosse, nella
prima pellicola. Al gruppo originario,
poi, si aggiungono Kenneth Branagh in un
ruolo puramente comico (una specie di
prodotto mediatico della stregoneria,
una sorta di sbruffone tuttologo, buono
solo a parole…) e Jason Isaacs (Il
patriota, Black Hawk Down) sotto il
mantello dell’infido padre di Draco
Malfoy. Una pellicola migliore e più
intensa in cui – nonostante la durata
notevole – il tempo scorre piacevolmente
nel seguire una storia dalle fila
serrate ed eleganti. Siamo esattamente
dove ci ha lasciato l’altro film. Harry
è tornato a vivere a casa degli zii per
le vacanze estive e – come al solito –
non è bene accolto.Non ha trascorso
delle belle vacanze. Non solo ha dovuto
subire la dispotica zia Petunia e il
prepotente zio Vernon e il loro terrore
per le sue doti magiche, ma sembra che
anche i suoi migliori amici Ron Weasley
(e Hermione Granger lo abbiano
dimenticato, nessuno dei due ha mai
risposto alle sue lettere. Gli appare
allora improvvisamente Dobby, un elfo
domestico, che lo avverte dell'enorme
pericolo che lo attende al suo ritorno
alla Scuola di Magia e Stregoneria di
Hogwarts.
Dobby è
così ansioso di impedire al giovane
Grifondoro di tornare a Hogwarts, che ha
bloccato tutte le lettere di Ron e di
Hermione. Malgrado i suoi sforzi però,
Harry riesce a sfuggire ai Dursley
grazie a Ron e ai suoi fratelli, che lo
portano in salvo a bordo di una macchina
volante. Harry sarà quindi ospite della
famiglia Weasley fino all'inizio della
scuola. Harry e Ron però non riescono a
raggiungere il Binario 9 e 3/4 e a
prendere il treno per Hogwarts. Per
evitare di arrivare in ritardo,
risalgono a bordo della macchina
volante, ma finiscono fra le grinfie del
professor Piton (che chiede la loro
espulsione quando la Ford Anglia si
schianta contro il Platano Picchiatore
della scuola. Harry è ormai famoso a
Hogwarts e si trova al centro di troppa
attenzione. Fra i suoi nuovi ammiratori
ci sono la sorellina di Ron, Ginny il
sedicente fotografo Colin Creevey e
purtroppo anche il nuovo professore di
Difesa contro le Arti Oscure, Gilderoy
Allock. (Branagh). Spinto dalla sua
enorme vanità, Allock desidera
ardentemente quelle attenzioni che Harry
evita, ma neppure lui riesce a spiegare
il terrore che si è impadronito della
scuola. Un film divertente, ma anche più
dosato rispetto al predecessore, e
totalmente incentrato sul mistero che
Potter risolverà brillantemente anche se
non senza qualche difficoltà. In più – e
vale la pena sottolinearlo – sembra che
lo stesso Chris Columbus, messa da parte
il desiderio di mostrare a tutti i costi
la grandiosità della produzione, si
concentra sull’azione e sullo sviluppo
psicologico dei protagonisti. Sappiamo
delle lacerazioni interne che scuotono i
tre protagonisti: Harry teme di potere
essere un Serpe Verde, Ron si vergogna
un po’ della sua famiglia sgangherata e
non particolarmente abbiente, Hermione
si sente osteggiata da Draco Malfoy,
perché i suoi genitori sono “Babbani”.
Insomma non c’è più soltanto la
grandiosità della messa in scena come al
solito molto fedele ai romanzi di J.R.
Rowling, ma c’è anche un tentativo di
sviluppare una pellicola meno solare e
decisamente più rivolta al cuore della
narrazione dei romanzi e all’eterno
scontro tra Bene e Male. Un film
originale, molto divertente e riuscito
che non solo non sfigura, ma – per molti
versi – supera il capostipite di quella
che si annuncia una lunga serie di film,
nonostante la sfortunata dipartita di
Richard Harris dal ruolo di Albus
Silente (si nota una certa sofferenza
durante le inquadrature che lo
riguardano) verso il grande
cinematografo dei cieli.
Il mio grosso grasso
matrimonio greco (My big fat greek
wedding) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Nia
Vardalos - John Corbett Sceneggiatura
Nia Vardalos Regia Joel Zwick Anno di
produzione USA 2002 Distribuzione Nexo
Durata 94’
Sebbene
pieno di luoghi comuni, questo piccolo
film interpretato da una simpaticissima
Nia Vardalos, autrice anche della
sceneggiatura e del monologo che ha
convinto Tom Hanks e sua moglie a
produrre il film, ha sicuramente un
grande pregio: quello di essere una
pellicola onesta che non vuole essere
nulla di differente da ciò che appare,
ovvero una moderna rivisitazione etnica
del mito di Cenerentola, mescolato alle
suggestioni di Bridget Jones.
Tula, infatti, una
una trentenne greca immigrata di seconda
generazione in America, lavora al
ristorante dei genitori e segue usi e
costumi della propria comunità
(tradizionalista, sessista ma anche
calorosa). Tutto questo nuoce alla sua
vita di relazione, fino a quando non
incontra un uomo che la ama così com’è…
ma amerà anche i genitori di lei? E loro
accetteranno uno “straniero”? Ovviamente
nelle risposte a tali quesiti c’è il
senso di un’intera commedia che la
Vardalos sviluppa con quell’umorismo
delirante a metà tra il Saturday
Night Live e la classica
Screwball Comedy all’americana. Al
di là dei luoghi comuni, però, quello
che funziona di più nel film sono due
personaggi del tutto insoliti: un uomo
bello e affascinante follemente
innamorato di una donna e disposto a
fare tutto per lei senza secondi fini,
una madre che è una donna interessante e
che gioca a raggirare il padre
contribuendo a dimostrare che la
questione del patriarcato è tutta una
propaganda femminista…Scherzi a parte
una pellicola leggera e gradevole
sull’amore e sulle sue infinite
possibilità.
Sognando Beckham (Bend
it like Beckham)
{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Parminder Nagra,
Keira Knightley, Jonathan Rhys-Meyers,
Anupam Kher Sceneggiatura e Regia
Gurinder Chandha Anno di produzione UK
2001 Distribuzione Lucky Red Durata 112’
Jess (Parminder
Nagra) è una diciottenne anglo-indiana
con la passione sfrenata per il calcio.
Così, grazie all’interessamento di
un’amica entrerà a far parte di una
squadra femminile, con risultati
sportivi notevoli.
Il problema è che la
sua famiglia, abbastanza
tradizionalista, non vede di buon occhio
questa sua attività agonistica. Per lei
sarebbe previsto un matrimonio
rigorosamente indiano, l’università e
figli da allevare. Eppure, dopo numerosi
inconvenienti e litigi, la ragazza
riuscirà a coltivare positivamente
l’amore per questo sport fino ad una
svolta che cambierà la sua vita.
Celebrazione di
Beckham e della sua mitologia,
Sognando Beckham è essenzialmente
una commedia sui sogni della gioventù e
sull’amore, nata sullo sfondo di quello
stesso paesaggio urbano ed etnico che
costituisce il sale del successo di film
come East is East e della serie
televisiva Goodness Gracious Me
trasmessa anche nel nostro paese da
Canal Jimmy nel pacchetto dell’ex Tele
+.
Cinematograficamente
molto valido, animato da una colonna
sonora divertente e scatenata questo
film è essenzialmente il racconto di un
sogno adolescenziale ostacolato da
qualcosa. Come in Billy Elliot
era la danza qui abbiamo il calcio. Con
l’unica differenza di scenario e di
doppia analisi sociale visto che ai
genitori della ragazzina di origine
orientale, fanno da contraltare quelli
della coetanea inglese, che sono
preoccupati dalla passione della figlia
per uno sport tutto maschile.
Un film divertente e
prevedibile nel suo sviluppo con un
gusto piacevole per un umorismo
brillante di stampo tipicamente
britannico.
Via dall’incubo (Enough){Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Jennifer
Lopez – Juliette Lewis – Bill Campbell –
Noah Wyle Sceneggiatura Nicholas Kazan
Regia Michael Apted Anno di produzione
Usa 2002 Distribuzione Columbia TriStar
Durata 115’
Dopo
Colpevole di innocenza il cinema
torna ad avere a che fare con moglie
moderne e il loro rapporto con i mariti
violenti. Una questione che era
presente, seppure a livello embrionale,
anche nel precedente film con Jennifer
Lopez Angel Eyes. Cameriera
orfana, con i sogni di una vita migliore
al college messi da parte per mancanza
di fondi, Slim conosce un uomo
meraviglioso: affettuoso, gentile,
tenero, innamorato. La ricchezza di lui
la mette al riparo dalla fatica del
lavoro e la ragazza dopo il matrimonio
si dedica alla cura della loro
figlioletta. Un giorno, però, Slim viene
a sapere del tradimento sistematico che
il marito porta avanti a suo danno.
Interrogato a tale riguardo l’uomo non
solo non nega, ma continua a comportarsi
così adducendo giustificazioni del
genere maschilista: “Io porto i soldi
a casa e ti faccio fare la signora…avrò
diritto a sfogarmi..” Slim non ci
sta, tenta di scappare e dalle parole si
passa ai fatti facendo cadere la donna
in una spirale di violenza dai toni
criminali. Il marito tanto amato si
rivela un pazzo pericoloso: metodico e
con molte conoscenze negli ambienti
criminali…insomma, un incubo, fino a
quando la donna non dice a se stessa di
averne abbastanza. Intrigante e intenso
(la regia di questo thriller è di
Michael Apted, autore di uno 007, di
Enigma e di altri film interessanti)
Via dall’incubo rappresenta non solo
un’esortazione a non lasciarsi
sopraffare dalla volgarità di una
violenza senza limiti, ma – soprattutto
– è un ritratto di una donna forte con
una Jennifer Lopez che –
sorprendentemente – rinuncia ad
accentuare le caratteristiche sensuali
della sua recitazione, per trasformarsi
in una macchina da guerra rivolta a
difendere fino all’ultimo i propri
diritti che la giustizia sembra non
essere capace di difendere per colpa di
una serie di cavilli. Sebbene non privo
di una serie di difetti (troppo
semplicistico e al tempo stesso troppo
articolato in alcuni momenti) Via
dall’incubo è coinvolgente e
riuscito nel suo teorema di rifiuto
dell’arroganza e della sottomissione.
Era mio padre (The
Road To Perdition) {Sostituisci con chiocciola}
Tom Hanks
– Paul Newman – Jude Law Sceneggiatura
David Self tratta dal fumetto di Max
Allan Collins & Richard Piers Rayner
Regia Sam Mendes Anno di produzione USA
2002 Distribuzione Twentieth Century Fox
Durata 117’
Sapere
raccontare la trama di un film senza
togliere allo spettatore il gusto della
visione e della scoperta è la prima
regola che un aspirante critico
cinematografico deve tentare di
imparare, quando inizia questo lavoro
nel segno dell’equilibrio e
dell’accuratezza. Nel corso degli anni,
però, il diavolo è sempre in agguato e
non sempre si riesce ad argomentare la
propria analisi della pellicola in
questione senza tradire dettagli o
particolari rivelatori. Un errore tutt’altro
che leggero, per il quale non si può che
implorare la clemenza del lettore.
Alle
volte – addirittura – alle proiezione
per la stampa, si trovano dei foglietti
inviati dai registi in cui – a prova di
cretino – si chiede di non rivelare
quando si scrive situazioni o punti
chiave che potrebbero addirittura
compromettere l’esito della visione del
pubblico pagante. Anche lì, spesso,
momenti salienti di film come A
beautiful mind e City of angels
sono stati diffusi e spettegolati ai
quattro venti da giornalisti e critici
cinematografici – nella migliore delle
ipotesi – superficiali.
E’ quindi
con sorpresa, nonché una punta di
sgomento che dopo averlo visto a
Venezia, scopriamo che The Road To
Perdition ultimo film del regista
del capolavoro di Sam Mendes American
Beauty si intitola nella sua
edizione italiana (peraltro funestata da
un doppiaggio a dir poco allucinante…)
Era mio padre. Conoscendo la
grande professionalità della divisione
nostrana della Twentieth Century Fox non
nutriamo alcun dubbio che questo titolo
sia stato scelto dopo uno studio
accurato e con motivazioni forti. Eppure
resta da domandarsi cosa sarebbe
accaduto se Citizen Kane di Orson
Welles fosse stato proposto con il
titolo di Una slitta di nome
Rosabella anziché con Quarto
Potere ? Quesiti, forse, sterili
che, però, fanno rimpiangere a tutti noi
la distanza dal mondo anglosassone in
cui – nella cosiddetta spoiler zone –
i lettori sono avvertiti in anticipo
di non entrare se non vogliono carpire
troppi segreti dei film che stanno per
andare a vedere al cinema.
E’ anche
vero che il popolare romanzo a fumetti
da cui è stato tratto il film è molto
noto, ma resta da domandarsi, perché
privare il piacere della scoperta ad uno
spettatore che – come chi scrive – spera
di non riuscire mai a prevedere quello
che accade durante un film? Per The
Road To Perdition, noi useremo d’ora
in avanti il titolo originale per
tentare di salvare il salvabile, anche
se il nome resta l’ultimo dei problemi.
Questo perché nonostante l’emozionante
messa in scena di Mendes, la pellicola
non riesce a sottrarsi a due fatali
fardelli: la prevedibilità dell’azione e
un’eccessiva dose di grottesco. Se da un
lato, infatti, anche lo spettatore meno
lungimirante da poco prima della metà
del film inizia a prevedere ogni singola
azione (e questo non certo per la loro
mirabolanza…), d’altro canto il
tentativo disperato di imbruttire Jude
Law (ma con tanti brutti naturali,
perché tentare di rendere grottesco
l’uomo più bello del mondo?) non può
essere accolto se non con una certa dose
di stupore. Per il resto, The Road To
Perdition è un film che non riesce
ad andare oltre una certa superficialità
nell’analisi dei rapporti umani.
Nonostante il carisma di Paul Newman,
enigmatica resta la figura del killer
Tom Hanks sospeso tra un’educazione
rigida e la necessità di non essere
davvero troppo cattivo danneggiando se
stesso al box office in futuro.
Dopodiché il resto è una favolosa
ricostruzione dell’America degli anni
Trenta con forti influenze letterarie e
cinematografiche. Quest’ultima e la
partitura orchestrale scritta da Thomas
Newman restano dunque le cose migliori
di un film tanto più deludente, perché
gravato di un’aspettativa così forte. In
più facciamo nostra un’obiezione mossa
dal celebre critico inglese Alexander
Walker che – durante la conferenza
stampa a Venezia – aveva rilevato come
il film fosse stato “normalizzato”
rispetto alle accuse severe nei
confronti della collusione tra la Chiesa
cattolica e la mafia irlandese.
Un’annotazione che getta ancora di più
nello sconforto lo spettatore sorpreso
di trovarsi dinanzi ad un ibrido tutt’altro
che coinvolgente, in cui i mafiosi
vittime di un agguato sotto la pioggia
battente pensano di rispondere al fuoco
sparando e tenendo in mano l’ombrello.
Ma chi è stato il loro padrino nel mondo
del crimine? Gene Kelly? Mikhail
Bariznikov? Difficile a dirsi così come
deprimente è ancora di più l’idea
secondo cui il titolo originale che
sembra un’evidente metafora del cammino
di ogni uomo, debba essere esplicitato
dal fatto che padre e figlio scappano
dalla loro città verso una zia lontana
che – guarda caso – abita in una
cittadina di nome “Perdition”… un passo
per Sam Mendes cui – dopo American
Beauty – possiamo comunque perdonare
tutto tranne il fatto di sposare Kate
Winslet.
L’amore infedele (Unfaithful)
{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Diane
Lane - Richard Gere – Olivier Martinez
Sceneggiatura Alvin Sargent basata sul
film di Claude Chabrol La Femme
Infidele Regia Adrian Lyne Anno di
produzione USA Distribuzione MEDUSA
Durata 124’
Anche i
belli come Richard Gere vengono traditi!
Generazioni di spettatori maschi
frustrati andranno a vedere questo film
come una rivincita morale? Difficile
crederlo, perché – come spesso capita
nel cinema di Adrian Lyne già autore di
pellicole come Nove settimane e
mezzo, Lolita, Flashdance e
Proposta indecente – sono i dettagli
a rendere questo pseudo noir
passionale una pellicola interessante,
ma tutt’altro che riuscita. Se da un
lato, infatti, le ambientazioni e la
bellezza prepotente di Diane Lane
costituiscono un richiamo di un certo
peso, d’altro canto, invece, il
moralismo tipico del cinema americano
con tanto di incredibile finale aperto
didascalico, lasciano perplesso lo
spettatore. Perché una signora
felicemente sposata, ricca e con un
figlio, debba tradire un marito tenero e
dolce che – tra l’altro – è
l’affascinante Richard Gere, per un
“coatto” per quanto bello Olivier
Martinez? La risposta è, ovviamente, di
natura personale e non necessariamente
motivata da argomentazioni nate nei
massimi sistemi. Il problema è semmai
che per quanto banale e non
necessariamente giusta, una risposta è,
però, necessaria. Altrimenti questo
dramma della gelosia che segue passo
dopo passo il copione nefasto dei
peggiori fatti di cronaca, resta
soltanto una sterile disamina
voyeuristica degli acrobatici
tradimenti di una donna in cerca di
trasgressione e – forse – di amore. Ed è
qui che possiamo leggere il tocco
infausto del regista Adrian Lyne che –
da sempre – getta il sasso, nascondendo
la mano. L’articolazione fenomenologica
del tradimento è esemplificata nel
dettaglio della sua paradigmatica
costruzione di sotterfugi, bugie e
rimpianti. Quello che – comunque – resta
poco chiaro è il perché. Non tanto
perché chi scrive avverta a tutti i
costi il bisogno di capire motivazioni e
scelte di una donna fatale e pericolosa.
Quando piuttosto perché senza di queste
il finale – che è meglio non rivelare –
diventa incomprensibile e superficiale,
nonché vagamente ridicolo. Ed è così che
L’amore infedele rivela di essere
una pellicola per certi versi intrigante
e intensa, mentre per altri è solo una
banale rivisitazione delle famose
quattro colonne in cronaca che
sanciscono il Fato ineluttabile di una
passione irrefrenabile.
Il pianeta del tesoro (Treasure
Planet) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Regia e
Sceneggiatura: John Musker & Ron
Clements tratta dal romanzo di Roberto
Louis Stevenson ‘L’isola del tesoro’;
Sceneggiatura: John Fusco Anno di
produzione USA 2002 Distribuzione Buena
Vista Durata 95’
Non
stupisce che i due registi di questo
film, nonché autori della sceneggiatura
ispirata dal romanzo di Robert Louis
Stevenson siano due amanti della
fantascienza e – in particolare – di
Star Trek. L’amore per le navi spaziali,
il paragone visivo ed emotivo tra queste
e i vascelli del diciannovesimo secolo,
le suggestioni non troppo lontane delle
serie Tv giapponesi come Star Blazers
e Capitan Harlock, fanno de
Il pianeta del tesoro un gioiello
di gusto ed ironia, aperto ad ogni
contaminazione. Del resto è evidente
anche il paragone con Guerre Stellari
e la figura di Luke Skywalker:
l’archetipo Jim Hawkins è – grazie
all’opera di Stevenson – un po’ il padre
putativo di tutti i ragazzi che –
abbandonati a loro stessi – guarderanno
alle stelle per scorgervi speranzosi il
proprio destino. In questa nuova
avventura spaziale animata della Disney,
Il Pianeta del Tesoro, il
leggendario “saccheggio dei mille mondi”
ispira una caccia al tesoro
intergalattica in cui il quindicenne Jim
Hawkins si imbatte nella mappa del più
grande tesoro dei pirati dell’universo.
Tratto da uno dei più noti racconti di
avventura, L’Isola del Tesoro di
Robert Louis Stevenson, questo film
segue il fantastico viaggio di Jim in un
universo parallelo, a bordo di uno
scintillante veliero spaziale. Dopo aver
stretto amicizia con un carismatico
cyborg (metà uomo, metà macchina), Long
John Silver, il cuoco della nave, Jim
letteralmente “fiorisce” sotto la sua
guida e si fa onore nel combattere,
insieme al suo equipaggio, supernove,
buchi neri e feroci tempeste spaziali.
Tuttavia lo attendono pericoli ben
peggiori: Jim scopre infatti che il suo
fidato amico Silver è in realtà un
astuto pirata che mira
all’ammutinamento. Di fronte a un
tradimento che gli lacera l’anima, Jim
cresce improvvisamente e da ragazzo
diventa uomo, trovando la forza di
contrastare gli ammutinati e scoprendo
un “tesoro” più grande di quello che
avrebbe mai immaginato.
Diretto
da Ron Clements & John Musker, lo
scrittore ed il regista molto apprezzati
per il loro lavoro ne La Sirenetta,
Aladdin ed Hercules, questo nuovo ed
emozionante adattamento porta
l’animazione nei meandri più estremi
della fantasia. Soprattutto perché
attraverso l’esplorazione di un rapporto
padre e figlio si cerca e si scandaglia
il senso ultimo dell’avventura e del
viaggio come metafora della crescita.
Un film
d’animazione intenso e divertente, in
cui si accentua la contaminazione di
stili, epoche ed oggetti già presenti in
Atlantis. Una fantascienza solo in
apparenza rivolta ai più piccoli e che
riporta tutti gli amanti di questo
genere alle radici della propria
passione: Stevenson e la ricerca della
saggezza e della verità oltre i mari
(siderali o meno). Il tesoro più grande,
infatti, è quello che ci consente di
capire chi siamo e cosa siamo diventati.
Spirit – Cavallo
Selvaggio (Spirit – the Stalion of
the Cymaron) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Regia:
Kelly Asbury & Lorna Cook;
Sceneggiatura: John Fusco Anno di
produzione USA 2002 Distribuzione UIP
Durata 85’
Realizzato con una tecnica mista tra
animazione a mano e digitale, Spirit
è l’ennesimo film d’animazione
Dreamworks in cui si cerca di alzare la
posta della sfida artistica, realizzando
una pellicola del tutto non
convenzionale.
Soprattutto nell’America di Bush dove
non c’è spazio per film d’animazione
dalla vocazione sovversiva come questo.
Già, perché il cavallo protagonista è
uno stallone indomabile che si confronta
con il viaggio nel mondo degli uomini.
Un po’ Schindler’s List, un po’
Soldato Blu, Spirit rappresenta
una critica feroce alla colonizzazione
militare, all’industrializzazione
incapace di tenere conto delle esigenze
della Natura, ad un mondo fatto di
sopraffazione e violenza, all’intera
mitologia della Frontiera e dell’Ovest
incapace di tenere conto delle esigenze
degli abitanti di quelle terre selvagge.
Con toni da commedia da film muto, privo
di simpatici animaletti antropomorfi, il
film è incentrato sulla ricerca di
libertà di un animale disposto a tutto
pur di difendere il suo stato. Ed è bene
sottolineare che i cavalli – tra loro –
nitriscono e non parlano come nei film
Disney e non c’è nemmeno nessun
simpatico animaletto peloso pronto a
fare ridere. Soltanto una voce off di un
cavallo che suscita ora lacrime, ora
ilarità con la sua analisi spassionata
della realtà umana. Un punto di vista
che diventa narrazione e che mostra la
conquista del West in tutto il suo
aspetto deteriore. Spirit
rappresenta per il cinema d’animazione
quello che è stato Apocalypse Now!
per quello bellico. Un viaggio alle
ragioni del dolore e dell’insensatezza
del militarismo. La versione italiana,
privata della melanconia di Bryan Adams,
si lancia con forza all’inseguimento
della voce di Zucchero e della sua presa
di possesso con fare libero e deciso di
una narrazione che coincide con un inno
alla libertà personale.
II parte
Marco
Spagnoli
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