I film di
dicembre 2002/gennaio 2003 (II)
Prima parte
Che fine ha fatto Santa
Clause? ( The Santa Clause 2) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Tim
Allen - Judge Reinhold, Wendy Crewson,
Elizabeth Mitchell, David Krumholtz,
Spencer Breslin Sceneggiatura Don Rhymer
e Cinco Paul & Ken Daurio e Ed Decter &
John J. Strauss Regia Michael Lembeck
Anno di produzione 2002 Distribuzione
Buena Vista Durata 98’
Scott
Calvin è stato Babbo Natale per otto
anni e i suoi fedeli folletti lo
considerano il miglior Babbo Natale mai
visto. Tuttavia il suo mondo viene
sconvolto quando scopre che non solo suo
figlio Charlie è finito sulla lista dei
“cattivi” di quest’anno ma anche che, se
non prenderà moglie entro la Vigilia di
Natale (a cui manca solo un mese!), non
potrà più continuare ad essere Babbo
Natale! (La Signora Natale è prevista da
una clausola del suo contratto).
Disperato, Scott si rivolge ai suoi
folletti e alla loro fantastica
invenzione, una macchina in grado di
riprodurre qualsiasi cosa, affinché
creino un’altra versione di se stesso
che prenda il suo posto per qualche
tempo. Le cose presto precipitano al
Polo Nord, luogo in cui Babbo Natale II
detta nuove leggi su ciò che debba
essere comunemente definito “buono” o
“cattivo”; e come se ciò non bastasse,
Scott si innamora di una potenziale
Signora Natale che cerca di seminare
discordia tra lui e Charlie. In un
crescendo in cui Babbo Natale, la neo
Signora Natale e i folletti si schierano
tutti contro Babbo Natale II e il suo
esercito di soldati di latta, il futuro
della famiglia di Scott, il Polo Nord e
il Natale stesso vengono pericolosamente
minacciati. Basterebbe la trama a dare
il senso di un film divertente, ma non
esilarante che con garbo, ironia e tanta
prevedibilità si pone come l’ennesima
variazione sul tema. Certo, ci sono
molti elementi divertentissimi come la
renna mangia dolci e la fatina dei denti
stufa del suo nome, eppure una
sceneggiatura un po’ fiacca e non
particolarmente brillante si pone come
l’ennesimo inno al consumismo (i regali
di quando eravamo bambini sono quelli
che ci rendono davvero felici), invece,
di puntare sui temi più fantastici
presenti nel film. Del resto queste sono
ambizioni anche un po’ ingenue per una
pellicola molto onesta che è esattamente
ciò che sembra. Il seguito di un film di
successo che esce al cinema al momento
giusto.
Insomnia {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Al Pacino
– Robin Williams – Hilary Swank
Sceneggiatura Hilary Seitz Regia
Christopher Nolan Anno di produzione USA
2002 Distribuzione Medusa Durata 114’
Prodotto
da Steven Soderbergh, Insomnia è
la versione ambientata in Alaska di un
thriller scandinavo del 1997 per la
regia di Erik Skjoldbjaerg e
interpretato da Stellan Skarsgaard.
Christopher Nolan, regista diventato di
culto dopo Memento, dirige in
maniera estremamente efficace questo
film che pur con qualche concessioni ai
rituali hollywoodiani, cattura lo
spettatore con un ritmo serrato ed
intrigante, pieno di colpi di scena che
precipitano l’azione verso un finale
prevedibile, anche se tutt’altro che
scontato. La pellicola, apprezzata in
maniera quasi unanime dalla critica
americana, è costata circa 46 milioni di
dollari (di cui ben undici intascati da
Al Pacino) e ne ha incassati 67 al box
office statunitense. Girato in dieci
settimane il film racconta la storia di
due poliziotti di Los Angeles spediti in
Alaska ad investigare sull’omicidio di
un’avvenente diciassettenne. Will Dormer,
leggendario investigatore californiano,
durante la perlustrazione uccide
inavvertitamente il suo collega Martin
Donovan, con cui – peraltro – aveva
platealmente litigato la sera prima.
Anziché denunciare il crimine, Dormer
(ironia dell’assonanza italiana per un
cognome del genere per un personaggio
che soffre di insonnia anche per i sensi
di colpa…) afferma di essere stato
aggredito dall’assassino, autore anche
dell’omicidio del collega. In realtà
l’omicida era davvero presente sulla
scena del delitto ed inizia a ricattare
il poliziotto, lacerato dai rimorsi e
dall’insonnia dovuta al sole di
mezzanotte. In più una detective locale,
messo da parte il timore reverenziale
nei confronti della fama dell’uomo,
inizia a condurre un’indagine personale
sulla morte di Donovan. Il trentaduenne
regista londinese Christopher Nolan
aveva inizialmente considerato la
possibilità di affidare a Harrison Ford
il ruolo andato poi ad Al Pacino. Una
scelta che si è rivelata più che felice
visto e considerato lo stato di grazie
con cui l’attore italo – americano ha
affrontato un ruolo complesso e pieno di
sfumature. Ma c’è anche qualcosa in più:
il messaggio alla base del film. Se
negli anni Trenta i film noir
fatti di bionde fatali e di duri dal
cuore tenero, rimandavano sempre
all’idea che il crimine non paga,
Insomnia è un film sull’importanza
dei mezzi che non possono essere mai
giustificati dai fini. Una pellicola che
pur lontana dal moralismo si rifà suo
malgrado ad un’ideale di purezza tutt’altro
che da sottovalutare che fa considerare
l’insonnia del titolo (l’abbaglio, la
chiarezza eccessiva, etc…) anche sotto
un’interessante metafora esistenziale.
Una pellicola intensa e per molti versi
disturbante sulla confusione dei toni e
dei ruoli in un mondo depauperato del
limite tra buoni e cattivi. Da non
perdere anche per la qualità elevata
della recitazione degli attori, nonché
per il forte afflato visionario che dona
una nuova prospettiva all’incarnazione
del Male.
K-19 {Sostituisci con chiocciola}
Harrison
Ford – Liam Neeson – Peter Sarsgaard
Sceneggiatura Christopher Kyle Regia
Kathryn Bigelow Anno di produzione USA
2002 Distribuzione 01 Durata 140’
L’ultimo
film di Kathryn Bigelow risulta
decisamente minore rispetto agli
immediati predecessori da Strange
Days a Il mistero dell’acqua.
Se da un lato manca di quello stile
visionario che ha fatto di questa
regista una delle più importanti autrice
di cinema d’azione e di suspence
al femminile, d’altro canto la statica
claustrofobia che è la base di qualsiasi
thriller ambientato in un sommergibile,
non si riesce a rompere nonostante i
veloci movimenti di macchina e –
soprattutto – la tensione addotta al
film dal fatto che sia stato ispirato ad
una storia vera. Certo, la Bigelow fa di
tutto per trascinarci sull’orlo dello
scoppio involontario della terza guerra
mondiale seguendo una girandola di
avvenimenti decisamente preoccupanti. Il
problema è semmai che non funziona
l’alchimia tra Harrison Ford e Liam
Neeson (così come peraltro non era
funzionata nemmeno quella tra Denzel
Washington e Gene Hackman per Allarme
Rosso di Tony Scott) inficiando
l’intera lettura di un film troppo lungo
ed eccessivamente ibrido. Né
documentario, né versione romanzata
K-19 soffre di un mancato
bilanciamento di realismo e fantasia.
Ispirato a un fatto realmente avvenuto,
il film racconta l’eroismo del capitano
Alexei Vostrikov (Harrison Ford) che, al
culmine della Guerra Fredda, riceve
l’ordine di sostituire il capitano
Mikhail Polenin (Liam Neeson) al comando
del sottomarino nucleare K-19, e di
metterlo a disposizione, anche se non
ancora del tutto pronto, per il viaggio
inaugurale, a ogni costo. Ma Vostrikov,
Polenin e il leale equipaggio del K-19
non immaginano neppure cosa ci si
aspetta da loro. E non sanno quale
potrebbe essere il prezzo del
fallimento, per loro stessi e per il
mondo intero, quando un reattore
nucleare va in avaria, minacciando
un’esplosione che sicuramente
ucciderebbe tutti quelli a bordo. Mentre
scivolano silenziosamente nelle acque
dell’Artico, è il coraggio
dell’equipaggio e il comportamento
responsabile di Vostrikov, nei confronti
del suo paese e dei suoi uomini che
salverà il K-19 … evitando quello che
sarebbe stato sicuramente un disastro
nucleare di proporzioni inimmaginabili.
Una trama complessa, ma poco
coinvolgente per un film
inspiegabilmente più rivolto all’azione
(limitata dagli spazi risicati) che a
suscitare vere ed emozioni simpatetiche
con i protagonisti.
El
Alamein {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Pierfrancesco Favino – Paolo Briguglia –
Luciano Scarpa – Emilio Solfrizzi
Sceneggiatura e Regia Enzo Monteleone
Anno di produzione Italia 2002
Distribuzione MEDUSA Durata 120’
Pur
ispirato da un lodevole intento
storicistico, molto lontano dalle
anacronistiche prese di coscienza
invocate da certa stampa di sinistra,
El Alamein soffre di alcune pesanti
carenze dal punto di vista narrativo.
Illuminato da un’eccezionale fotografia
sabbiosa (la più bella dell’anno insieme
a quella di Respiro di Emanuele
Crialese) e interpretato in maniera
molto solida da un gruppo di giovani
attori poco conosciuti e molto
affiatati, El Alamein soccombe
nel suo volere essere involontariamente
una sorta di “Deserto dei Tartari” post
moderno, ma corretto dal punto di vista
storico, in cui la battaglia in cui
morirono oltre novemila soldati italiani
sembra passare in secondo piano rispetto
all’attesa del combattimento (risolto in
poche sequenze) rispetto lunghissimi
dialoghi ed ancora più tediose
passeggiate attraverso il deserto. La
sensibilità di Monteleone, infatti, pur
avvicinandoci in maniera mirabile allo
spirito che regnava nelle trincee
italiane popolate di soldati male
armati, peggio nutriti, e quasi per
nulla equipaggiati, perde spessore e
compiutezza quando tenta di fotografare
l’anima di un gruppo di soldati
diventati eroi per caso di una guerra
che non avevano mai veramente compreso
prima del suo atto finale. Per quanto
l’umanità dei protagonisti sia
raccontata in dettaglio, complici anche
una serie di interviste che il regista
ha effettuato tra i superstiti delle
nostre divisioni, presentate a Venezia
nel toccante documentario I ragazzi
di El Alamein, Monteleone sembra non
riuscire a tirare perfettamente le trame
di una narrazione che spesso risulta
frammentaria, aneddotica ed irrisolta.
Un atto dovuto comunque alla memoria di
tanti eroi senza nome, per uno dei
migliori film di guerra italiani di
sempre, perché in grado di rinunciare
senza mezzi termini al ricatto della
commedia all’italiana per cui “gli
italiani brava gente” sapevano fare
anche tanto ridere. Una pellicola che
avrebbe necessitato di una maggiore
compattezza narrativa (perfino forzosa)
per coinvolgere davvero lo spettatore.
Femme
Fatale {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Rebecca
Romjin Stamos – Antonio Banderas – Peter
Coyote Sceneggiatura e Regia Brian De
Palma Anno di produzione Francia 2002
Distribuzione Medusa Durata 112’
Dopo un
decennio incerto fatto di film
discutibili e forse non del tutto nelle
sue corde come Mission to Mars,
Mission Impossible e Snake eyes,
Brian De Palma ci regala un
capolavoro di gusto ed intelligenza
stilistica, figlio delle suggestioni del
cinema noir portate all’estremo.
Tra ironia e sensualità, trovando il suo
punto di forza in una regia
straordinaria e in una sceneggiatura
erede del fatalismo e della spiritualità
del cinema in bianco e nero, Femme
Fatale è una pellicola emozionante e
coinvolgente di cui è protagonista
Rebecca Romjin Stamos, già nota per X
men e Rollerball.
Elegante
e raffinato Femme Fatale in certi
momenti raggiunge i livelli di una sorta
di “surrogato cinematografico” del
Viagra. La bellezza della Stamos, la sua
sensualità al tempo stesso dirompente e
fragile come quella di tutte le peggiori
cattive ragazze del grande schermo,
rendono il film un viaggio casualmente
quasi alla Kieslowski sul tema della
scelta e della redenzione. Tutto, però,
incomincia – guarda caso - durante il
Festival del cinema di Cannes, di fronte
ad un televisore su cui sono presenti le
immagini del Dvd del capostipite dei
film Noir La fiamma del peccato.
Lì troviamo una ragazza perfetta nella
sua nudità sfrontata che – manco a dirlo
– è la pericolosa creatura di cui ogni
uomo è al tempo stesso spaventato e
profondamente innamorato.
Cinema
nel cinema, per dimostrare sin da subito
che qui si tratta di una favola e non
certo di una riflessione sociologica. De
Palma cautamente conduce lo spettatore
sul terreno delle infinite possibilità
che ci vengono offerte dall’arte
cinematografica.
Laura Ash
(Rebecca Romjin Stamos), infatti, è una
tentatrice nata, una bellezza
mozzafiato: una “femme fatale”. Sette
anni dopo una temeraria rapina ad una
gioielleria durante il Festival del
cinema, la donna torna in Francia con
una nuova identità. Un paparazzo di nome
Nicolas, le scatta una foto mettendo a
repentaglio la sua vita. Ma la sua
curiosità per questa "donna" si
rivelerà fatale? E’ questo il quesito su
cui viene costruita una sceneggiatura
perfetta che De Palma dirige con una
freschezza ed una perizia
impressionanti. In più la simpatia di
Antonio Banderas e il pericolo che
insegue la donna per tutto il film,
mescolati ad una serie di dettagli,
rendono Femme Fatale una di
quelle opere da vedere e rivedere. Una
celebrazione estetica della bellezza
femminile del terzo millennio, un
omaggio al genere noir e alle sue
fascinazioni, ma soprattutto una storia
spettacolare in cui rendere giustizia a
tutte le donne cattive dello schermo,
attraverso l’ultima creatura che arriva
dopo Barbara Stanwyck e Lauren Bacall.
Questa Rebecca Romjin Stamos che presta
il volto ed il corpo ad una “marcia
bisessuale molto cattiva” trovando
spazio e forza per una redenzione tutt’altro
che attesa. Una pellicola sulle infinite
possibilità dell’esistenza, una
riflessione filosofica e antropologica
esaltata da una grande sensualità e dal
senso di un grandissimo cinema. Uno dei
migliori film degli ultimi anni, un
capolavoro di tono e di gusto, di cui
non resta che attendere con ansia il Dvd.
L’uomo
del treno (L’homme du train) {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Johnny
Halliday – Jean Rochefort Sceneggiatura
Claude Klotz Regia Patrice Leconte Anno
di produzione Francia 2002 Distribuzione
Mikado Durata 90’
E’ una
fiaba postmoderna su una seconda
possibilità quella che il regista
Patrice Leconte ha voluto costruire con
due attori straordinari come Jean
Rochefort e il cantante pop Johnny
Halliday. Un’interpretazione
straordinaria quella dei due
protagonisti per un film che è stato
molto apprezzato allo scorso Festival
del cinema di Venezia. La storia è
quella di un rapinatore di banche che –
per caso – finisce a casa di un
professore di liceo in pensione. Se il
primo è affascinato dal secondo per la
vita regolare e tranquilla che lui non
ha mai vissuto, né potuto vivere,
l’altro è disperatamente sedotto
dall’esistenza senza legami condotta dal
suo misterioso ospite. Girato con uno
stile molto originale che
contraddistingue il cinema di Patrice
Leconte, L’uomo del treno vive di
alcune suggestioni noir mescolate
alla commedia, per una riflessione
disincantata, ma anche profondamente
coinvolgente sulla mezza età e sui
rimpianti riguardo il passato. Non solo,
è anche un’analisi poetica e al tempo
stesso paradossalmente cinica sulle
varie modalità con cui affrontare
l’esistenza. Se da un lato, infatti,
abbiamo gli uomini che hanno sempre uno
spazzolino di ricambio e le pantofole
nello stesso posto, dall’altro ci sono
anche persone che prendono il treno
senza spazzolino e che vivono una vita
senza pantofole. Una divisione quasi
categorica dell’esistenza in un film
intenso e coinvolgente sulle modalità di
godere la vita e al tempo stesso una
divertente, ma avvincente commedia
noir con un unico difetto. Un finale
pasticciato ed incerto non all’altezza
del resto del film, né visivamente, né
spiritualmente.
Reign of
fire {Sostituisci con chiocciola}
Christian
Bale – Matthew McCounaghey – Isabella
Scorupco – Gerald Butler Sceneggiatura
Greg Shabbot & Kevin Peterka Regia Rob
Bowman Anno di produzione USA – UK 2002
Distribuzione Buena Vista Durata 105’
Il
regista di tanti episodi della serie X
files nonché del primo lungometraggio
con David Duchovny e Gillian Anderson ha
il suo bel daffare nel plasmare sotto il
profilo visivo la storia nata
dall’ideale incontro tra le suggestioni
di Jurassic Park e i film post atomici.
Peccato che Reign of fire nonostante le
animazioni interessanti di questi draghi
volanti, fotografati con un colore
virato verso il seppia per dare al tutto
un arcigno tono industriale, non riesca
ad andare oltre la riproposizione del
cliché drago – caviliere – scontro.
Questi animali mitologici risvegliati
per caso dai lavori in un cantiere
londinese, hanno iniziato a dominare il
pianeta, diventando anche protagonisti
di un film dalla sceneggiatura pessima,
in cui tutto il peggio e il prevedibile
emerga senza pietà né per i draghi, né
per gli spettatori increduli nel vedere
Christian Bale e Matthew McCounaghey
(attori poco più che trentenni)
impegnati a scimmiottare il peggiore
cinema del genere fantastico
catastrofico. Certo, la pellicola è
spettacolare (e ci mancava pure…), ma è
anche costantemente alla ricerca di se
stessa per differenziarsi dal passato. E
questo si vede, soprattutto, quando
l’inevitabile (ma è davvero così?)
scontro tra umani e draghi avviene sul
terreno della forza. Nessuna
intelligenza diversa, nessun afflato
particolare, nessuna tentazione di dare
una sterzata mistica o ipertecnologica
alla narrazione che rimane soltanto un
aggiornamento pedissequo delle favole
medievali di cavalieri intrepidi e di
interi villaggi in pericolo. Della
serie: tiriamo fuori i draghi, ma
rendiamo più attuali i cavalieri…una
scelta che poteva risultare interessante
e che, invece, naufraga nel peggiori
qualunquismo narrativo.
The
Bourne Identity {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Matt
Damon – Franka Potente – Chris Cooper –
Brian Cox – Julia Stiles Sceneggiatura
Tony Gilroi tratta dall’omonimo romanzo
di Robert Ludlum Regia Doug Liman Anno
di produzione USA 2002 Distribuzione UIP
Durata 120’
Quello
che più colpisce di The Bourne
Identity è la sua straordinaria
capacità di rimanere nelle linee di una
narrazione secca eppure intensa, in cui
lo spettatore non è mai davvero troppo
avanti rispetto il protagonista Jason
Bourne. L’uomo ripescato da un
peschereccio italiano al largo di
Marsiglia ha due pallottole nella
schiena, il numero di un conto svizzero
cucito sotto pelle e non ricorda il
proprio nome. Ed è così che Bourne si
presenta al pubblico. Un volto senza
identità. Lo spettatore, pian piano
segue Matt Damon (un attore al solito in
grado di mostrare una grande empatia)
nel suo stupore riguardo le capacità
meccaniche che riacquista lentamente. Da
un lato Bourne è in grado di maneggiare
con destrezza coltelli e pugnali,
dall’altro non ha memoria di un solo
istante della propria vita. Così è
costretto a seguire a ritroso le tracce
verso una banca svizzera in cui scoprirà
qualcosa di molto pericoloso. Spy
story aggiornata ai ritmi e alle
seduzioni del terzo millennio, The
Bourne Identity è un film intrigante
ed interessante in cui lo spettatore
rischia per la prima volta di sentirsi
fortemente identificato nei protagonisti
della storia, visto che sia Matt Damon
che Franka Potente sono attori
“accessibili” e – in apparenza – molto
normali. Il resto è un thriller
fatto di doppiogiochismo, alta
tecnologia, interessi sporchi e –
soprattutto – incentrato su una
narrazione figlia delle suggestioni dei
videoclip di MTV, su un mondo sporco
senza bandiere e senza ideali in cui,
però, la coscienza e l’etica possono
arrivare a trionfare. Una pellicola
piacevole e molto interessante che
rappresenta uno dei migliori e più
“semplici” (dal punto di vista
narrativo, non della costruzione visiva)
film di spie degli ultimi anni
Austin
Powers 3 – Goldmember {Sostituisci con chiocciola}
Mike
Myers – Beyonce Knowles – Michael Caine
– Michael York Sceneggiatura Mike Myers
Regia Jay Roach Anno di produzione USA
2002 Durata 90’
Il terzo
episodio di Austin Powers pur
avendo nel titolo un riferimento chiaro
allo 007 di Goldfinger è
ambientato nel decennio successivo al
terzo episodio bondiano, con una
celebrazione della musica disco e degli
anni Settanta. Sebbene i rimandi
cinematografici siano a 007 Si vive
solo due volte, la pellicola di Mike
Myers (forse la migliore della serie) è
tenuta su da una serie di divertenti
cameo che è meglio non chiarire per
non rovinare l’unico motivo di interesse
verso questa pellicola che accentua per
l’ennesima volta il gusto per la
citazione e per il cinema nel cinema.
Il resto
è la solita caterva di sconcezze più o
meno gratuite, situazioni comico
demenziali e sozzerie varie. La bella di
turno (dopo Elizabeth Hurley e Heather
Graham) è Beyonce Knowles, lead
vocalist delle Destiny’s child,
impegnata con il suo personaggio di
Foxxy Cleopatra a fare il verso ai film
di blaxploitation degli anni
Settanta che hanno reso famose attrici
come Pam Grier, recentemente rivista in
Jackie Brown di Quentin Tarantino.
Certo, era lecito attendersi qualcosa di
più da questo ennesimo confronto tra il
controspione scongelato e il suo mortale
nemico il Dottor Male accompagnato dal
suo mini clone – Mini Me. Purtroppo,
però, anche la presenza carismatica di
Michael Caine rappresenta poco più che
un divertissment per una
franchise che sembra definitivamente
avere esaurito le peraltro poche idee
principali. Non ci resta che vedere e
rivedere i cameo di prominenti figure
del cinema hollywoodiano. Almeno quelle
(come in passato la presenza di Burt
Bacharach e Elvis Costello) hanno un
senso ed ottengono un risultato.
Spider
{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Ralph
Fiennes – Mirando Richardson – Gabriel
Byrne Sceneggiatura Patrick McGrath
Regia David Cronenberg Anno di
produzione UK – Canada 2002
Distribuzione Fandango Durata 98’
Tratto
dal romanzo omonimo di Patrick McGrath,
la versione cinematografica che David
Cronenberg ha voluto costruire sulle
psicosi disperate di un uomo solo e
sofferente è – naturalmente - figlia del
cinema dell’autore canadese, con tutto
quello che questa appartenenza “forte”
comporta nel bene e nel male. Chi ama il
lavoro del di Cronenberg potrà quindi
passare sopra la volgarizzazione (anche
visiva) un po’ eccessiva del testo di
McGrath e soprattutto sul fatto che non
si riesca mai davvero ad essere avvolti
dalla claustrofobica cappa di follia del
protagonista.
Chi non è un fan del lavoro del regista
de La mosca, invece, partendo
dall’assunto che il cinema non sia
un’arte complementare e che l’unica
maniera per adattare un romanzo per lo
schermo è quella di tradire l’originale,
dovrà riconoscere che Cronenberg è stato
straordinario nella resa minimalista
dell’azione e nell’interpretazione degli
attori. In questo senso sia Ralph
Fiennes, che la Miranda Richardson
interprete della maggior parte delle
donne presenti sullo schermo, danno
un’ottima prova di sé nel rendere al
meglio quella che è esattamente la
visione che Cronenberg vuole dare del
romanzo. Qualche dubbio, però, resta
sulle soluzioni visive della follia e
della psicosi. Dopo A beautiful mind
e altre pellicole che coinvolgono ed
esaltano la soggettività del pubblico
riguardo la malattia, Spider, pur
essendo omogeneo alla poetica del suo
autore, sembra limitato nel mantenere lo
spettatore in qualche maniera esterno al
nucleo vitale della narrazione. Una
scelta personale e – ovviamente – non
casuale di Cronenberg che si appella
alla sensibilità individuale dello
spettatore per un riscontro emotivo
sincero ed avvolgente, nonché per una
parola finale di apprezzamento o
rifiuto.
Ma che colpa abbiamo
noi? {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Carlo
Verdone – Anita Caprioli – Margherita
Buy – Stefano Pesce – Antonio Catania
Sceneggiatura Carlo Verdone, Fiamma
Satta, Pasquale Plastino, Piero De
Bernardi Regia Carlo Verdone Anno di
produzione Italia 2002 Durata 116’
Il film
della maturità per Carlo Verdone? No, il
momento è ancora rimandato anche se Ma
che colpa abbiamo noi? si avvicina – e
di molto – alle possibilità che il
simpaticissimo e talentuoso regista
romano può sfruttare. Cosa manca a
questo film? Nulla, perché il risultato
è sicuramente centrato, ovvero Verdone
ha realizzato esattamente la pellicola
semi seria e agrodolce che voleva fare.
Il problema è semmai che gli è mancato
il coraggio sufficiente per dare un
taglio netto al passato rimuovendolo del
tutto. Quando Verdone dimentica di
essere il Verdone che tutti vorrebbero
fosse, allora il film funziona. Quando
Verdone cerca di mantenersi nei canoni
di un cinema rassicurante (soprattutto
dal suo punto di vista), allora tutto
sembra funzionare sempre di meno. Quando
la commedia è studiata non funziona,
quando la commedia emerge senza
sottolineature, ecco che il film
conquista quello spazio e quella
dinamica che è lecito attendersi da una
persona colta ed intelligente come Carlo
Verdone che – in Ma che colpa abbiamo
noi? – affronta la psicanalisi e le sue
illusioni attraverso i personaggi di
Gegè, Luca, Gabriella, Chiara, Ernesto,
Alfredo, Marco e Flavia che - in comune
– hanno solo quell’ora settimanale in
cui si ritrovano tutti insieme per fare
terapia di gruppo dall’anziana
dottoressa Lojacono. Ed è lì che li
vediamo per la prima volta. Talmente
sono presi dal raccontarsi, da non
accorgersi che la psicanalista è morta
sotto i loro occhi. Ai nostri non rimane
che rientrare mestamente nelle loro
solitudini, spaesati, disperati e
consapevoli di aver perso un loro
importante punto di riferimento. Gegè,
un cinquantenne brillante, alle prese
con il dominio psicologico di un
padre-padrone da cui non è mai riuscito
ad emanciparsi crede che le tenerezze di
una giovane amante possano essere un
sufficiente sollievo; Luca, raffinato e
scontroso omosessuale, pur accettando
pienamente la sua diversità, non riesce
a tagliare i faticosissimi legami che lo
rendono schiavo di un uomo sposato con
figli; Gabriella, vogliosa signora
cinquantenne, con il terrore di
invecchiare e di rimanere ancora più
sola di quanto non sia; Chiara, bella
universitaria alla continua ricerca di
cibo e d’amore; Ernesto invece l’amore
ce l’ha, fortissimo, per sua moglie.
Peccato che lei, per punirlo di un
fugace tradimento, lo abbia buttato
fuori di casa, costringendolo a trovar
sonno solo sui treni; Alfredo,
orchestrale gioviale e pieno di fede, a
quarant’anni vive ancora con la madre
anziana; Marco, ultimo arrivato nel
gruppo, è un trentenne silenzioso, ma la
sua particolarissima casa, piena di
suoni e di immagini, parla per lui;
Flavia, bella professoressa che vive
sola con la sua gatta, a trentacinque
anni non ha ancora trovato l’uomo
giusto, perciò si accontenta di un uomo
sposato troppo indaffarato per dedicarle
più di qualche sporadico momento
d’amore…Alla morte della psicanalista i
nostri decidono di continuare a vedersi
settimanalmente per proseguire da soli
le sedute di terapia. L’unico a tirarsi
indietro è Alfredo, che confida molto
nelle sue forze. Una commedia corale,
evidentemente non troppo facile da
gestire che ha i suoi momenti migliori
quando dell’esperienza verdoniana del
passato mantiene solo un’incosciente
freschezza. Per il resto da notare le
interpretazioni straordinarie di un cast
di attori notevoli con – su tutti –
Anita Caprioli, Antonio Catania e una
Lucia Sardo decisamente irriconoscibile
dopo l’interpretazione della madre di
Peppino Impastato ne I cento passi.
Anche questo un altro titolo di merito
per Verdone, regista e attore da cui è
più che naturale attendersi altre belle
sorprese in futuro.
Marco
Spagnoli
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