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LETTURE&SCRITTURE a cura di Giulio Mozzi - Aprile 1997 |
Non solo
libri (I
parte) AVVISO AI NAVIGANTI. Gli editori che volessero proporre volumi o riviste per recensione devono inviarli al seguente indirizzo: Nautilus, Ashmultimedia, via Fra' Paolo Sarpi 16, 36100 Vicenza, all'attenzione di Giulio Mozzi.
Un libro fondamentale. Harold Bloom, Il canone occidentale: i Libri e le Scuole delle Età, trad. Francesco Saba Sardi, Bompiani, pp. 482, L. 60.000
Il canone: un’ipotesi di lavoro. Il libro gira attorno a una tesi, che però non è mai presentata come assolutamente vera: è piuttosto un’ipotesi di lavoro. Bloom dice: ci sono delle opere (delle opere, piuttosto che degli scrittori) che dentro la storia della letteratura occidentale hanno assunto un ruolo canonico. Sono opere che hanno introdotto nella letteratura cose che non c’erano prima (ricordiamo l’imperativo di Ezra Pound: make it new, fa’ qualcosa di nuovo), e che hanno successivamente generato altre opere o intere scuole. Sono opere che spesso sono al contempo «finali» (perché inglobano i contenuti morali e formali di un intero periodo) e «iniziali» (perché hanno indicato un cammino sul quale altri, dopo, si sono incamminati). Come si diventa canonici. Attenzione: Bloom non prende in considerazione la rilevanza storica in senso stretto di queste opere; anzi, il suo atteggiamento è perennemente e polemicamente antistoricistico («io sono un vero critico marxista, seguace di Groucho», p. 462); se queste opere sono diventate «canoniche», dice Bloom, è a causa della loro altissima qualità. In somma, si diventa «canonici» non per meriti storici, ma per meriti «estetici» («ogni forte originalità artistica diviene canonica», p. 22). Il che spiega, ad esempio, come secondo Bloom sia canonico Shakespeare ma non Boccaccio, benché il Decamerone di Boccaccio sia stato un «serbatoio di storie» per tutte le generazioni a venire (e anche per lo stesso Shakespeare). Fuori i nomi. Nelle pagine cosiddette culturali dei nostri giornali, all’uscita del libro si scatenò una vana polemica: chi è dentro e chi è fuori dal canone, perché ci sono così pochi italiani ecc. - che non è affatto il centro della questione, anzi è un aspetto veramente marginale. I nomi comunque sono ventisei, e sono questi: Shakespeare, Dante, Chaucer, Cervantes, Molière, Montaigne, Milton, Samuel Johnson, Goethe, Wordsworth, Austen, Whitman, Dickinson, Dickens, George Eliot, Tolstoj, Ibsen, Freud, Proust, Joyce, Woolf, Kafka, Borges, Neruda, Pessoa, Beckett. Basta lo stesso sbilanciamento verso la modernità a far vedere che questo canone non può proporsi che come «canone provvisorio», se non addirittura come «canone personale». Ma questo è, appunto, il bello del libro. Shakespeare & Dante. Al centro del canone occidentale sta, secondo Bloom, Shakespeare; e al suo fianco, un po’ meno al centro, c’è Dante. Essi «costituiscono il centro del Canone perché superano tutti gli altri scrittori occidentali in fatto di acutezza cognitiva, energia linguistica e forza di invenzione» (p. 39): e queste tre categorie Bloom usa di continuo, dichiarate o sottintese, in tutta la sua scorribanda attraverso la nostra storia letteraria. Arrivati a metà libro, diciamo a p. 253, dove leggiamo: «può darsi che Withman, al pari di tutti i grandi scrittori, fosse un accidente della storia», ci rendiamo conto che il gran lavoro di Bloom è appunto quello di farci sentire che i grandi scrittori non sono affatto degli «accidenti della storia», ma sono invece i «produttori della storia». A costruire il canone «non sono né critici né accademie, e tanto meno politici. Sono scrittori, artisti, compositori a stabilire canoni, gettando ponti tra forti precursori e forti successori» (p. 463). Si potrebbe dire che una categoria critica «sommersa», costantemente usata da Bloom, è quella della «vitalità»: sono canonici quegli autori che a distanza di decenni o di secoli risultano ancora vivi, che «il mondo non è disposto a lasciar morire» (p. 16); quegli autori con i quali lo scrittore d’oggi sente di non poter fare a meno di confrontarsi (e, ad esempio, tutto il capitolo su Joyce è giocato come una sorta di competizione, o «agone», tra Joyce e Shakespeare). Influenza, influenza! L’effetto che Canone occidentale produce sul lettore è questo: che si comincia a pensare alla letteratura come a una specie di lotta tra scrittori; una lotta nella quale appaiono ogni tanto dei combattenti formidabili, assolutamente invincibili, contro i quali tuttavia i più giovani si scagliano cercando, ad un tempo, di imitarli e di capovolgerli, di inglobarli e di negarli. A questo punto, uno rilegge una pagina di Joyce e «ci sente» dentro tutto lo Shakespeare che c’è; dopo di che, se non ha letto bene Shakespeare, gli vengono un mucchio di sensi di colpa e corre subito a leggerlo. In un certo senso, Canone occidentale è un libro speculare al classico Letteratura europea e Medio Evo latino di Ernst Robert Curtius (ed. italiana a cura di Roberto Antonelli, La Nuova Italia, 1992 [ed. or. 1948], pp. 727, L. 75.000; Bloom lo cita ripetutamente e considera Curtius «il più eminente dei moderni critici letterari tedeschi», p. 183): Curtius ha rintracciato gli elementi di continuità in alcuni secoli della letteratura occidentale, analizzando filologicamente le trasformazioni di determinati tropi, immagini, personaggi ecc. attraverso le epoche e gli scrittori; Bloom ricostruisce una sua personale storia della letteratura attraverso l’influenza reciproca tra gli scrittori, giungendo a definire «canonici» quegli scrittori che, in termini appunto di influenza, risultano aver più dato e meno ricevuto. Abbiamo da ridire. I refusi sono sempre spiacevoli, ma in un testo di studio diventano intollerabili. E questo libro ne è pieno. Harold Bloom, nato a New York nel 1930, è considerato uno dei maggiori critici letterari degli Stati Uniti d’America. Tra i suoi libri più importanti ricordiamo almeno L’angoscia dell’influenza: una teoria della poesia (1973; trad. it. di Mario Diacono, Feltrinelli 1983, pp. 167, L. 19.000), nel quale è già ampiamente impostato quel modo di leggere la [storia della] letteratura esemplificato in Canone occidentale. Bloom non si occupa solo di letteratura: è molto interessante, ad esempio, il suo libro La religione americana: l’avvento della nazione post-cristiana (1992; trad. it. Serena Lauzi, Garzanti 1994, pp. 344, L. 38.000).
Potrei esordire dicendo che i racconti del libro sopracitato mi avevano colpito molto di più. Potrei concordare concordando con quelli che dicono che il linguaggio di Mark Leyner è l’invenzione di fine secolo, nel senso che si presenta come una voce unica e veramente innovativa. Sarebbe tutto vero. Leyner è bravissimo, perché riesce a costruire un romanzo in cui non ha nessun limite da rispettare, può sfrecciare a Mach 9 tra le pagine, può incensarsi, può uccidere, lavarsi i denti, sniffare l’alito mattutino di Lincoln, ricomporre la realtà inseminandola della struttura paramilitare del Team Leyner, organizzazione sorta come una religione commerciale attorno alla carismatica figura del suo capo spirituale, che è ovviamente Leyner stesso. Leyner crea un mondo che lentamente prende il sopravvento su di lui e lo fa sparire, lasciando la sua organizzazione (o meglio, le sue iniziative didattico-commerciali) come testimonianza eterna di ciò che era riuscito a diventare un semplice scrittore. E inoltre, nel libro, manca un pezzo di libro, confiscato da «agenti federali autorizzati dalla Legge sulla Confisca Punitiva». Tutto questo è forte. Tutto questo è Mark Leyner, sia in versione reale che in versione biografico-letteraria. e penso che Leyner sia un autore da leggere almeno una volta nella vita. Ma questo autore ha anche, secondo me, dei limiti ben precisi. Sorvolo sul fatto che Ehi tu, baby! non mi convinca del tutto nell’insieme della sua narrazione a volte zoppicante. Perché questo può dipendere dal fatto che Leyner riesca più facilmente a tenere il suo linguaggio su livelli altamente anfetaminici nello spazio breve di un racconto, o da fattori mutageni del mio cervello. Non sorvolo invece su un fatto che ho ben chiaro in testa. Entrambi i libri che ho letto di Mark Leyner mi hanno, in certi passaggi, divertito. Ma quando li ho chiusi ho sentito un grande vuoto in testa. Tutto il vortice di Leyner mi ha azzerato per qualche secondo, e quando tutto è tornato normale, nessuna traccia del libro era rimasta in me. Sia chiaro che questo non è un giudizio, ma una semplice constatazione. Sia chiaro che chi riesce ad azzerarmi per qualche secondo avrà sempre, se non la mia stima assoluta, la mia attenzione assoluta. [su Mark Leyner vedi anche «Mentre Lou Reed si appisola», in Nautilus dicembre 1996] (simone battig)
Tolto dalla scena (dove ha goduto di un meritato successo), Rap mostra tutti i suoi limiti: composto da una serie di racconti di sogni, spezzettati e ricombinati, manca di «spinta agogica» e si fa ascoltare con una certa fatica. Gli episodi più musicali si configurano appunto come «episodi»; si stenta a percepire l’unità della composizione, poiché gli episodi sono ciascuno caratterizzato da una unica scelta recitativa e/o musicale, così che l’effetto è sempre di una certa piattezza: non è più teatro, e non è ancora musica; tra l’altro, quasi tutta la musica presente ha il sapore della citazione, dagli stessi passaggi rap ai rapidi e «segnaletici» interventi degli archi, fino all’episodio «buca buca» che ricorda curiosamente Fabio Concato. In qualche caso, poi, abbiamo l’impressione di assistere alla resuscitazione di qualche cadavere degli anni Settanta: come nell’episodio corale «Ma la faccia molto brutta», collage di suoni prodotti con la bocca (dai colpi di tosse ai bleah!) che produce un incongruo e inaccettabile effetto Supergulp (diciamo che dopo le composizioni di Luciano Berio per Cathy Berberian, o A-Ronne dello stesso Berio, sempre su testo di Sanguineti, sembra che questa via di ricerca sia esaurita). Ciò detto, va dato atto della parziale riuscita dell’operazione e del coraggio dimostrato tanto da Liberovici quanto da Sanguineti, che sembra (oggi) l’unico poeta italiano capace di progettare e agire fuori dell’oggetto-libro. Provvedimenti disciplinari andrebbero presi contro la persona che ha deciso di inserire nel libretto, anziché una fotografia, una caricatura di Sanguineti tra le più brutte che si siano mai viste. Tutti i nomi. Musica di Andrea Liberovici. Testo di Edoardo Sanguineti. Interpreti: Ottavia Fusco e Andrea Liberovici. Voce «fuori campo» Enrico Ghezzi. Viola, violoncello, Basso, Programmazione computer, Cori: Andrea Liberovici. Tromba vocale: Renzo Spinetti. Chitarre: Massimo Malatesta. Percussioni: Marzio Narcisi. Cori: Franci Pope e Luca Valerio. Tecnico del suono: Carlo Sala. Registrazione: H.s.h. Studio, Genova, febbraio 1996. Mix: Studio Metropolis, Milano. Edizioni: Nuova Fonit Cetra.
Che cosa c’è. Lette da Ungaretti: Sono una creatura, Inno alla morte, La madre, Caino, La morte meditata: Canto V, Senza più peso, Defunti su montagne, E’ dietro, Segreto del poeta. Lette da Lupo: Il porto sepolto, Girovago, Alla noia, Fine di Crono, Ultimo quarto, Dove la luce, La preghiera, Cori ii, vii e x dai Cori descrittivi di stati d’animo di Didone, Cori vii, ix, xiii, xxii, xxvii da Ultimi cori per la Terra Promessa. Lette da Sbragia: I fiumi, Lucca, Giorno per giorno, Tu ti spezzasti, Non gridare più. Lette da Piccioni: Stella, Dono, La conchiglia, Il lampo della bocca, Dunja. |