FILM Febbraio 2000
I QUATTRO FILM CANDIDATI ALL'OSCAR 2000
American Beauty {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Una busta di plastica volteggia tra le foglie cadute di
fronte al garage di una villetta monofamiliare. Altre
costruzioni praticamente identiche costellano la strada.
Altre strade si intersecano tra loro. Dall’alto una
visione di insieme ci fa dimenticare le solitudini, i
dolori, le incomprensioni, i dubbi e le ipocrisie. Dall’alto
anche la busta di plastica abbandonata non si riesce più a
scorgere. In un mondo di dolorosa violenza: quella busta
costituisce la cosa più bella mai vista da un ragazzo di
quel vicinato. Il suo danzare tra le foglie gialle di un
autunno triste come tanti altri è la "bellezza
americana" che il regista teatrale Sam Mendes ci
propone nel suo esordio cinematografico American Beauty. Una
pellicola prodotta dalla Dreamworks di Steven Spielberg e
che in poco più di un mese ha incassato circa un milione di
dollari al giorno negli USA. Un film durissimo, un ritratto
sconvolgente e perfetto dal punto di vista stilistico della
famiglia americana medio borghese. Lui (Kevin Spacey) è un
padre di famiglia che non riesce a comunicare con la figlia
adolescente, un giornalista sull’orlo del licenziamento
che sogna un’altra vita. Lei (Annette Bening) è una donna
in carriera che tra tecniche di rilassamento e corsi di
autostima tradisce il marito con il miglior venditore di
case della città. La figlia è una adolescente dubbiosa
come tante, con un’amica che gioca a fare la ragazzetta
facile con tutti. Il vicino di casa è un marine con una
moglie con cui non parla più da anni. Il loro figlio è un
maniaco della telecamera vittima della violenza del padre
fanatico e militarista, spaccia droga per conquistare una
vita lontano dalla sua famiglia. I dirimpettai sono una
coppia di yuppies gay. Gli unici personaggi positivi, in un
mondo dove la commedia umana di Balzac viene attualizzata e
raccontata in maniera molto moderna. American Beauty è
un capolavoro. Forse, il film migliore che si poteva sperare
da una fine di millennio in cui sono rimasti in pochi coloro
che vogliono analizzare accuratamente la nostra società.
Mendes ci riesce perfettamente con una pellicola
inquietante, dai toni poetici e onirici che pur parlando di
storie familiari, inchioda il pubblico alla poltrona come se
fosse un thriller. Un’ironia amara, una visione del
mondo realistica fin nei minimi dettagli, un film d’autore
prodotto da una grande casa di distribuzione per raggiungere
il pubblico di tutto il mondo con un messaggio moderno, ma
anche molto antico. Scriveva Orazio ne Il Satyricon "La
vita non è nulla, mentre ti volti già si fa notte." Questo
è più o meno il senso del film in cui l’agitarsi per il
lavoro, gli scontri tra persone che si dovrebbero invece
amare, il dolore e l’incomprensione gratuiti sono solo un
modo stupido per dimenticare quello che davvero conta. E che
Kevin Spacey scopre proprio quando non c’è più
nulla da fare per salvare. Un film indimenticabile e
imperdibile. L’ultimo capolavoro dello scorso secolo
cinematografico.
Il sesto senso {Sostituisci con chiocciola}
Se un film fosse costituito dalla sua semplice struttura,
si potrebbe arrivare a dire che Il Sesto Senso è un
vero e proprio capolavoro. Un finale a sorpresa lo rende,
infatti, una pellicola assolutamente originale nel panorama
del cinema horror. A parte il colpo di scena, però,
e a parte anche alcune notevoli incongruenze di natura
strettamente cinematografica, questo film con protagonista
un Bruce Willis con un’improbabile pettinatura da ‘gagà’,
è noioso e deludente. E l’aspetto drammatico della
questione sta nel fatto che se uscite dalla sala prima della
fine non capirete mai come questa pellicola abbia potuto
incassare in America più di trecento miliardi di lire.
Mentre bravissimo è il bambino Haley Joe Osment, Willis –
forse non a suo agio a recitare in coppia con degli under
13 – ci sembra eccessivamente granitico e poco
convincente. Qualcosa di analogo a ciò che gli era accaduto
nell’infelice Codice Mercury, pellicola che
tramortiva lo spettatore anche per colpa di una pessima
regia. Cosa che ne Il Sesto Senso non accade. Uno
stile vicino a quello del cinema indipendente americano
tiene la tensione sempre molto alta e l’adrenalina scorre
a fiumi nel seguire le azioni improvvise dei fantasmi che
popolano la vita di un piccolo bambino, che lo psicologo
Willis dovrebbe cercare di aiutare. Un film riuscito solo
dal punto di vista strutturale, perché bisogna dimenticare
a tutti i costi i molti dubbi sollevati da un colpo di
teatro credibile solo a patto di non farsi troppe domande. Il
Sesto Senso è una pellicola costruita male su un’idea
geniale, in cui tutto viene disposto ad arte per condurre
gli spettatori a cadere nel tranello di un complesso gioco
di specchietti per le allodole. Con la paura che nasce –
come per le pellicole veramente spaventose come Poltergeist,
Shining e L’esorcista – dal confronto di
persone ordinarie con eventi straordinari e improvvisi.
Inspiegabili come i fantasmi che attraversano le nostre
esistenze senza che noi ce ne accorgiamo e che possono
venire percepiti solo da coloro che hanno Il Sesto Senso.
Un gioco difficile da portare avanti per tutto un film e che
richiede un’intelligenza registica superiore, per un
autore praticamente esordiente come questo M. Night
Shyalaman, incapace però di fornire buone basi alle sue
ottime idee fondata sull’affermazione presente in Oltre
il giardino con Peter Sellers in cui si dice che La
vita è uno stato mentale. Secondo il regista anche la
morte, può diventare analogo a una semplice percezione.
Purtroppo tale convinzione non è supportata da nessuna base
religiosa o spirituale, e questo ci fa temere che Hollywood
elabori strane teorie ultramondane solo per i suoi incassi.
Le regole della casa del sidro {Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Solo apparentemente la storia semplice e dall’andamento
elittico di un ragazzo cresciuto in un orfanotrofio, che
istruito nell’arte medica dal primario – direttore del
piccolo istituto del Maine dove si trova - decide di
costruirsi una nuova vita come bracciante agricolo. Ad una
seconda e più approfondita lettura, Le regole della casa
del Sidro è una riflessione originale e molto profonda
sull’identità e sul senso di paternità inteso nella
maniera più ampia possibile. Nonostante, infatti, il film
rischi sempre di scivolare in facili e ruffiane situazioni
da soap opera tra amori illeciti, sguardi
supplichevoli di bambini desiderosi di farsi adottare,
preghiere dette in ginocchio la sera prima di addormentarsi
in camerate spoglie, ma pulite, il suo senso di grande
umanità e la grande interpretazione di Michael Caine e
Tobey Maguire, lo sollevano molto al di sopra della media
del cinema sentimentale degli ultimi trenta anni. L’elemento
psicologico e l’indagine su alcuni fragili meccanismi del
cuore, rendono Le regole della casa del Sidro qualcosa
di molto diverso dai film del passato. Il suo incedere
lento, senza solennità, le brutture e le storture della
vita vissute sulla loro pelle dai personaggi, i sorrisi
tristi di bambini abbandonati dal mondo, rendono questo film
diretto dal regista Lasse Hallstrom, già autore del
fortunato Buon compleanno Mr. Grape un’opera
diversa e molto dolorosa. L’identità e il senso di
appartenenza sono i temi dominanti di un film in cui è il
senso di mancanza il tratto che unisce tutti i personaggi.
Il viaggio fisico di Homer (Nome omen, direbbe
qualcuno…) è – come spesso capita – un itinerario
spirituale che lo scoprirà a capire chi realmente è,
tornando a un passato che lo porta necessariamente a
compiere quel destino quasi ineluttabile, la cui via maestra
era stata segnata da quel padre spirituale che gli aveva
salvato la vita quando era piccolo. L’unico capace di
interpretare il suo silenzio di neonato abbadonato come una
richiesta di amore e di aiuto. Un film emozionante in cui il
confronto tra il mondo esterno e la piccola comunità di
bambini abbandonati in cerca di affetto è in realtà un
raffinato e sottile gioco di ombre e riflessi.
Il miglio verde
{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}{Sostituisci con chiocciola}
Lungo oltre tre ore necessarie per ripercorrere
fedelmente l’adattamento dall’omonimo racconto di
Stephen King, Il miglio verde è un film molto
particolare capace di unire cronaca e mistero, poesia e
orrore. Ambientato tra i detenuti e le guardie carcerarie
del braccio della morte di una prigione degli Stati Uniti
degli anni Trenta il film candidato all’Oscar che annovera
tra i suoi protagonisti uno straordinario Tom Hanks è forse
la prima pellicola in cui viene mostrata in maniera
esplicita che cosa avviene ai condannati a morte sulla sedia
elettrica durante la loro esecuzione. Un’opera dal chiaro
contenuto sociale che si schiera apertamente contro la pena
di morte e che eppure è capace di riflettere poeticamente
sulla vita che si trascorre sul cosiddetto ‘miglio verde’,
ovvero l’ultimo percorso compiuto da un condannato prima
di salire sulla sedia fatale. Ma al di là della minuziosa
ricostruzione di cosa accade in un simile contesto e della
vita dei protagonisti sul confine con la morte, al di là
perfino delle atmosfere che sembrano inevitabilmente
ricordare il cinema dei duri dal cuore d’oro come James
Cagney, Il miglio verde raggiunge il suo punto più
alto nel descrivere il personaggio di John Coffey, un
colossale nero accusato dell’omicidio e stupro di due
bambine, che in realtà è uno sciamano dai poteri
taumaturgici. La sua storia dalle profonde connotazioni New
Age coincide con il trasportare il film verso una dimensione
spirituale dal grande fascino, facendo così diventare Il
miglio verde un capolavoro sospeso in una dimensione
intermedia tra la vita e la morte, in una zona grigia di
riflessione tra l’atrocità della realtà e le suggestioni
del cinema e della letteratura fantastici.
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Marco Spagnoli
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